Il caso dell’ex vicepresidente della Regione Lombardia
Ennesima assoluzione per Mantovani, dopo 7 anni di gogna: “Contro di me accanimento”
“Il fatto non sussiste”. Mai, per Mario Mantovani, l’ex vicepresidente della Regione Lombardia che due giorni fa ha portato a casa l’ennesima assoluzione con la formula più ampia. Dovrebbe essere l’ultimo filone del suo processo, quello nato nel 2015 con il clamoroso arresto dell’ex senatore, viceministro e parlamentare europeo, oltre che numero due del governatore Maroni in Regione Lombardia. Dovrebbe –il condizionale è d’obbligo, dicono i bravi giornalisti, fingendo di crederci- perché non è detto che il pm milanese Giovanni Polizzi, che da almeno sette anni indaga ad ampio raggio su un personaggio politico da sempre abituato ad arrivare primo in ogni competizione elettorale, non si voglia sbilanciare in un altro ricorso in appello.
Finora gli è andata sempre male, fin dal primo processo, nato quel 13 ottobre 2015, quando Mantovani fu arrestato. Il senatore lo ricorda bene, quel giorno, perché gli agenti della Guardia di finanza non erano soli, sull’uscio della sua casa di Arconate. “C’era anche il giornalista di riferimento del pm, secondo lo stile descritto da Luca Palamara, un cronista locale che naturalmente scriveva sul Fatto quotidiano”. È andata male per l’accusa, perché dopo carcere e sputtanamento mediatico particolarmente rumoroso, si era arrivati, in appello, al fatidico “il fatto non sussiste” e all’assoluzione con la formula più ampia. Ma è interessante, a partire dall’ultimo filone il cui punto fermo è stato messo due giorni fa, capire la mentalità e la cultura da cui partono, spesso in modo reiterato, le iniziative di alcuni pubblici ministeri. Mario Mantovani, benché da qualche tempo sia iscritto a un partito come quello di Giorgia Meloni che non brilla certo per cultura da Stato di diritto, è sempre stato un garantista, ben prima di essere punto sulla propria pelle. A Milano sono in tanti a ricordarlo mentre, in piedi su un palchetto improvvisato davanti al più affollato ingresso del Palazzo di giustizia, arringava avvocati e magistrati sull’ingiustizia dell’inchiesta Ruby di cui era vittima Silvio Berlusconi. Aveva ragione, naturalmente, anche dal punto di vista processuale.
E oggi non ha nessuno scrupolo nel dare ragione a Luca Palamara, soprattutto per certe Procure come quella di Milano, dove ci sono “pm ideologicizzati pronti ad aggressioni in mala fede, anche falsando notizie che poi vengono smentite in tutti i gradi del processo, fino alla cassazione”. Certo, a lui l’hanno fatta grossa. Prendiamo quest’ultimo filone d’inchiesta. Mario Mantovani ha sempre avuto una grande attenzione per il sociale, con una particolare sensibilità che gli viene riconosciuta da tutti, e a cui deve in gran parte anche i successi elettorali. È un credente sincero e un politico appassionato. Ma sono caratteristiche umane difficilmente rilevabili da una certa mentalità di stampo travagliesco e grillino sempre sospettosa e pronta a vedere nel mondo politico peccati e reati. Purtroppo questa mentalità appartiene anche a certi magistrati. Così spesso si finisce con il sovrapporre il reato al reo, andando a caccia di quel “tipo d’autore” che ha le caratteristiche per commettere una determinata tipologia di reati. Il classico è il politico relativamente ai reati contro la Pubblica Amministrazione.
Così, mentre Mantovani era in carcere per i reati di peculato, corruzione e turbativa d’asta su specifici episodi (da cui verrà assolto solo sette anni dopo), la Guardia di finanza guidata dal pm Giovanni Polizzi, indagava su tutta la sua vita, per vedere se per caso non ci fosse qualcosa d’altro su cui pizzicarlo. Che cosa poteva esserci di più succulento se non le Onlus fondate dall’ex senatore (ma di cui non era più amministratore dal 1999 quando era stato per la prima volta eletto), che rendevano un pubblico servizio e che ricevevano, come tutti, contributi dalla Regione Lombardia? La Gdf ha cominciato dunque prima di tutto a perquisire ogni cooperativa, a spulciare ogni carta, a cercare, cercare. Subito si spara alto, con l’imputazione di peculato: hai preso i soldi pubblici e li hai usati per fini personali, è l’accusa, con conseguente sequestro della sua villa di Cuggiono. Ma la Cassazione dispone il dissequestro e la cancellazione del reato di peculato.
Che cosa fa allora la Procura? Imputa il reato di appropriazione indebita o truffa. Mantovani va davanti al primo Gup, il dottor Arnaldi, il quale rimanda le carte al Pm, bollando le accuse come “cose generiche”. Il Pm allora si sposta sulla contestazione di “autoriciclaggio” e “frode fiscale”. Si va dal secondo gup, il dottor Castaldi, il quale cassa l’ipotesi del primo reato e manda a giudizio Mantovani per frode fiscale. Si arriva così davanti al terzo giudice, il dottor Sandro Saba, il quale assolve l’imputato “perché il fatto non sussiste”. Il pm Polizzi mercoledì pomeriggio non era in aula, Mantovani sì e ha parlato per mezz’ora. Non gli è stato difficile demolire il castello di accuse a grappolo. “Un accanimento senza limiti” contro di me, accusa. E ricorda che il famoso giornalista di riferimento già sei mesi prima del suo arresto scriveva come fosse opportuno che qualche pm indagasse sulle sue onlus.
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