Domenica scorsa il primo ministro Giuseppe Conte ha parlato, prefigurando gli scenari della fase II, quella successiva al 4 maggio. Ha riferito di aver avuto serrate consultazioni col suo comitato di esperti, decidendo le linee guida del decreto per allentare le misure restrittive finora in vigore. Cosa gli avranno detto gli esperti e su quali basi avranno deciso, ad esempio, di consentire la libera circolazione all’interno dei comuni, ma non nella regione o, ancor meno, tra le regioni? E i criteri di visita ai “congiunti” o di ripresa delle attività sportive all’aperto? E le progressive riaperture delle varie attività commerciali, con le scadenze del 18 maggio e del primo giugno? Vediamo di capire insieme i principi che devono aver ispirato queste scelte.
Quando si deve prendere una decisione scientificamente ortodossa, ci si attiene alle leggi che regolano il fenomeno in questione. Quanto si può aumentare la potenza prodotta da una centrale nucleare, prima che il reattore vada fuori controllo? Quanto si può scendere in profondità con un determinato sottomarino, prima che la pressione dell’acqua cominci a danneggiarlo? Quanto si può aumentare il numero di telefoni e computer, prima che la rete di comunicazioni si intasi? In tutte queste circostanze, esistono regole che discendono da una teoria scientifica, comprovata da ripetuti esperimenti eseguiti in svariate condizioni. La teoria permette di eseguire i calcoli necessari alla valutazione degli effetti conseguenti alle possibili azioni che saranno compiute. Si può pertanto stabilire fin dove ci si può spingere per ottenere un certo risultato, senza che si verifichino reazioni avverse. Ma non sempre esistono teorie che possano guidare la scelta.
Abbiamo un mazzo di chiavi e una serratura. Come si fa a capire quale sia la chiave giusta? Se alcune hanno forma o dimensioni incompatibili con la toppa, le potremo scartare, ma tra quelle di forma compatibile non c’è nessun criterio che ci possa guidare. In altri termini, abbiamo delle indicazioni, ma non una via certa da seguire. La fase II somiglia a questo secondo caso. In fisica, il tentare una chiave dando la precedenza a quella che ci sembra giusta, perché magari è della stessa marca della serratura, si definisce metodo del “trial & error”, provaci e guarda se ci hai azzeccato, o no. E sottintende: se no, riprova di nuovo, finché non ci riesci. Ogni scelta che si fa utilizzando la tecnica trial & error comporta un piccolo azzardo. Se si tratta di chiavi da inserire in una serratura, al più si rischia di perdere un po’ tempo. Se invece si tratta di come gestire la fine del lockdown, i rischi possono essere molto più seri.
Trial & error, però, non significa procedere alla cieca. Significa piuttosto cercare di sfruttare al meglio le insufficienti informazioni di cui si dispone e di avanzare con cautela, in modo tale che un eventuale errore non abbia conseguenze drammatiche. Una politica di piccoli passi, stando bene attenti a non mettere il piede in fallo e ad assicurarsi che poggi su un sasso stabile. Se si sente che traballa, si torna indietro e si cerca un’altra via. L’idea che ispira la fase II è stata definita “stop & go”, una perifrasi di trial & error, con in più l’allusione a un movimento interrotto da pause di riflessione. Nella fase II, il trial è il tentativo di allargare progressivamente le maglie della rete di contenimento (prendendo tutte le precauzioni possibili), aspettare un certo intervallo di tempo, valutabile in un paio di settimane, e osservare le conseguenze di ogni ulteriore allentamento delle restrizioni.
La stella polare che guiderà questo cammino sarà il controllo dei nuovi contagi. Immaginare che non ce ne siano più è velleitario. Il concorso di persone su mezzi di trasporto e in luoghi pubblici comporterà fatalmente nuovi casi. Ma la comparsa di nuovi casi non sarà necessariamente indizio che si è compiuto un error. Sappiamo fin d’ora che, statisticamente, qualche contatto accidentale si verificherà. Restare chiusi in casa più a lungo riduce il pericolo, ma confligge con esigenze antagoniste che impongono la riapertura, come la necessità psicologica di tornare presto a una vita quasi normale e quella di riavviare i comparti produttivi, per scongiurare danni ancora peggiori a un’economia già duramente provata. Si tratta quindi di valutare sulla base dei dati disponibili il rapporto tra rischi e benefici.
Ciò che bisogna evitare è la comparsa di nuovi focolai epidemici. Casi sporadici si potranno dunque verificare, ma va ridotta al minimo la probabilità di infezioni multiple nello stesso luogo. Ecco il motivo. L’evoluzione dell’epidemia di Covid 19 può essere spiegata ipotizzando che all’inizio ogni malato infettasse due soggetti sani (in realtà un po’ di più), corrispondente a un “fattore di riproduzione” R0=2. Questo meccanismo di propagazione comportava l’aumento esponenziale dei malati. Se, anziché due persone, un malato ne infettasse tre, ovvero R0=3, l’aumento sarebbe sempre esponenziale e ancora più veloce. Al contrario, per un R0 minore di 2, l’aumento esponenziale sarebbe più lento, fino al valore limite di R0=1. Il valore 1 è uno spartiacque: per R0 minore di 1 l’epidemia si spegne da sola, perché al virus viene a mancare il terreno di caccia.
Infatti, R0 minore di 1 significa che, a ogni passaggio infettivo, il numero dei malati diminuisce e, alla fine, nessuno è più contagiato. L’immunità di gregge, che si realizza quando molti soggetti diventano immuni, perché guariti (o, quando possibile, vaccinati), corrisponde proprio a questa condizione: il valore di R0 che, in assenza di soggetti immuni, sarebbe stato maggiore di uno, viene ridotto a un valore inferiore a uno e il contagio, un po’ alla volta, cessa. Le misure igieniche, la sanificazione degli ambienti, la separazione tra gli individui e l’adozione dei dispositivi di protezione svolgono una funzione analoga alla presenza dei soggetti immuni, cioè abbassano il coefficiente R0 sotto la soglia critica di 1. Viceversa, dove non si dovessero rispettare queste prescrizioni, R0 tornerebbe rapidamente al suo valore naturale e si accenderebbe un nuovo focolaio epidemico.
Fortunatamente, anche se si dovessero verificare casi del genere, non saremmo impreparati come all’inizio dell’epidemia. In quella circostanza fummo colti di sorpresa, sia perché non si immaginava che il virus orientale potesse arrivare e attecchire così presto, sia perché i primi casi di sindrome da Covid19 si verificarono in concomitanza col picco dell’influenza stagionale. Tra le centinaia di migliaia di malati di influenza in quel periodo, non era facile capire che alcuni fossero affetti da patologie di altra natura, riconducibili a un virus diverso, piuttosto che a un aggravamento delle condizioni influenzali.
Oltretutto l’Istat stima circa diecimila decessi all’anno collegati all’influenza stagionale, o alle sue complicanze, e alcune di esse sono proprio polmoniti acute. Oggi invece siamo perfettamente consapevoli della presenza del virus e attentissimi a ogni possibile rischio di nuove insorgenze dell’epidemia. Nel malaugurato caso che dovessero verificarsi, saremo in grado di circoscriverle ed estinguerle senza dover estendere le misure di contenimento, come è stato necessario fare in passato. Ecco cosa devono aver concluso gli esperti, prima di consegnare il documento al Presidente e di dirgli: “Domenica vai e pronuncia parole di speranza”.
