Ex Ilva, incompetenza e demagogia fanno male ad ambiente e al lavoro

I fatti: nel 2015 Alessandro Morricella, 35 anni, muore investito di una fiammata di ghisa incandescente nell’Altoforno (Afo)2 del Siderurgico ionico. Il tribunale di Taranto sequestra l’altoforno e impone ai gestori (azienda allora commissariata) di mettere in sicurezza l’impianto entro 3 mesi. I commissari chiedono un anno, viene concesso, ma in realtà, quando l’Ilva viene ceduta in affitto ad ArcelorMittal, il 1 novembre 2018, l’Afo2 è ancora da mettere in sicurezza. Metterlo in sicurezza equivale (ma attenzione, vale anche per gli altri due altoforni attivi: Afo1 e Afo4) ad automatizzare il campo di colata per evitare che sia in caso di rilevazione termica della ghisa liquida, sia per liberare eventuali ostruzioni del foro di colata, vi sia contatto umano. Apprendiamo che il bonifico a Paul Wurth, società specializzata in questi interventi, è stato fatto il 20 novembre 2019. Il giudice Francesco Maccagnano non ha torto a chiedere serietà.
ArcelorMittal arriva appunto il 1 novembre 2018 e i lavoratori sono in forza dal 1 gennaio successivo.

La decisione del Tribunale del riesame di Taranto, dello scorso martedì 7 gennaio, accoglie l’appello e per l’effetto, annulla l’ordinanza del giudice monocratico in sede del 10 dicembre 2019 e il provvedimento connesso del 12 dicembre 2019 concedendo all’appellante la proroga di facoltà d’uso dell’altoforno due (Afo2). Una decisione che nell’immediato salvaguarda l’attuale capacità produttiva evitando la messa in cassa integrazione di altri 2mila operai, minacciata da ArcelorMittal nelle settimane scorse, ma soprattutto evita,quello che poteva essere un disastro industriale, finanziario e sociale. L’accoglimento della richiesta dei Commissari è però soggetta a delle condizioni. La proroga infatti è subordinata all’adempimento delle residue prescrizioni, in tutto e in parte non attuate. Prescrizioni che è bene ricordare, i Commissari straordinari dovevano adottare dal 2015. Il 15 gennaio prossimo dovrebbe tenersi la prima prossima udienza del processo per la morte di Alessandro, un paradosso che la dice lunga rispetto a questa vertenza.

Ora, a decorrere dalla data di deposito della presente ordinanza, entro 6 settimane bisognerà dotare dei cosiddetti dispositivi attivi di sicurezza l’impianto, a partire dalla data del 19 novembre 2019; mentre entro 9 mesi bisognerà attivare il caricatore automatico della massa nella Mat (Macchina a tappare); ed entro 10 mesi attivare il campionatore automatico della ghisa; 14 mesi invece per l’attivazione del caricatore delle aste della Maf (Macchina a forare) e sostituzione della Maf stessa. Lavori che permetteranno di mettere in sicurezza l’altoforno. Certo, c’è da chiedersi perché in 3 anni e più i Commissari (la mitica gestione pubblica) non abbiano ottemperato alle prescrizioni per la messa a norma di Afo2 e degli altri altoforni che sono nelle medesime condizioni. Ci auguriamo che a questo punto i commissari straordinari e ArcelorMittal non perdano tempo prezioso e adempiano a tutte le richieste nei tempi previsti.

Non bisogna abbassare la guardia pensando che il peggio è stato scongiurato. Ora tutti i soggetti convolti, i commissari straordinari, ArcelorMittal, devono fare quanto indicato senza perdere tempo prezioso adempiendo nei tempi a tutte le richieste del tribunale. Automatizzare e mettere in sicurezza anche gli altri Altoforni per evitare nuove tragedie e fare le bonifiche ambientali necessarie. Su questo fronte anche la Regione cambi rotta e si dia da fare: in questi anni si è contraddistinta per una serie di cause intentate nei confronti dell’ex-Ilva, tutte perse, e per un continuo cambio di posizione rispetto al sito tarantino che certo non ha aiutato.

La vertenza va tirata fuori dallo scontro politico e ideologico che in questi anni ne ha fatto terreno di propaganda a spese dei lavoratori e dei cittadini di Taranto e del territorio limitrofo. La soluzione va trovata, non dentro fantomatiche e illusorie proposte che ogni tanto qualche politico butta sul tavolo, ma dentro l’accordo che abbiamo sottoscritto lo scorso 6 settembre 2018 tra organizzazioni sindacali, ArcelorMittal e governo Conte1. L’intesa da noi sottoscritta punta al rilancio industriale e ambientale della più grande acciaieria d’Europa e di tutti gli altri siti del gruppo in Italia, senza nessun esubero. Un Piano che se fosse messo in pratica permetterebbe anche a Taranto, come avviene nel resto d’Europa, di produrre acciaio in maniera sostenibile sul piano ambientale e sanitario.


Per noi quell’accordo resta ancora valido anche se, ovviamente, i fatti di questi mesi hanno fornito un grosso assist all’azienda che lo userà in fase negoziale per rivederne i contenuti.
Resta sul tavolo anche il memorandum siglato prima di Natale dalla multinazionale franco-indiana con il governo che prevede la costituzione entro la fine del mese di una nuova società mista, in cui entrerebbero oltre alle banche creditrici (Intesa San Paolo, Unicredit, Bpm e Cassa Depositi e Prestiti) anche lo Stato (attraverso Invitalia). Un piano d’investimenti che dovrebbe aggirarsi intorno a 3,3 miliardi. Di questi, 2,4 miliardi per il riassetto dello stabilimento esistente e 900 milioni per l’installazione dell’impianto di pre-riduzione (il governo vorrebbe gestirlo attraverso una newco) con l’istallazione di 2 forni elettrici. Un piano che presenta una serie d’incognite, sia sul piano industriale, ma anche su quello occupazionale e ambientale, che sembra mosso più da esigenze interne alla maggioranza, che da una reale intenzione di rilancio del sito.

Ad esempio non si capisce da dove nasca l’idea (se non dall’esigenza di assecondare qualche campagna elettorale locale) di cambiare il ciclo produttivo della fabbrica andando certamente a danneggiare la portata occupazionale, senza miglioramenti in termini ambientali e con nessun reale rinnovamento tecnologico rispetto alla procedura di riesame dell’Autorizzazione Ambientale sulla base della Valutazione preventiva del danno sanitario entro i 6 milioni di tonnellate di produzione richiesta dal ministero dell’Ambiente (e in parte già consegnata con risultati positivi). Altrettanti dubbi pone un piano industriale che fissi oggi l’obbligo di produzione per un’azienda, come ai tempi dei piani quinquennali sovietici o del ventennio italiota di triste memoria, di 8 milioni di tonnellate fra tre anni, in una totale e sempre più repentina incertezza del mercato e delle strategie geopolitiche a esso correlate. Tutti dimenticano che 1000 occupati per milione di tonnellata è una proporzione che vale per l’acciaio prodotto con altoforno.

Il guaio è che non abbiamo vera evidenza della trattativa in cui saremo coinvolti, forse dalla prossima settimana, (il countdown di fare un accordo in 3 settimane dopo anni perduti nella propaganda), ovvero per la data fissata dell’udienza presso il Tribunale di Milano. Significa dare certezza al piano ambientale, azzerare gli esuberi annunciati, rilanciare la produzione affinché sia sostenibile. Esattamente come era l’accordo del 6 settembre 2018. Penso che in questa vicenda la politica abbia già fatto troppi danni, non solo allo stabilimento tarantino ma all’intera economia italiana. Le vicende degli ultimi mesi sono finite sulle prima pagine dei quotidiani di mezzo mondo, dando l’idea di un Paese allo sbando: chi verrebbe a investire in un Paese in cui si cambiano le regole ogni 6 mesi e dove non c’è certezza di un accordo sottoscritto in sede governativa?

Ecco perché ritengo che in questa partita il governo debba tornare ad avere un ruolo da garante dell’accordo da noi sottoscritto e del quadro normativo precedente in cui è stato raggiunto se vuole veramente rilanciare il sito di Taranto sul piano industriale, ambientale e sanitario. Se ognuno facesse la propria parte, questa vicenda potrebbe assumere i contorni di un riscatto e di un rilancio del Sud e del Paese. Ma per farlo c’è bisogno di uomini di buona volontà e con un briciolo di competenza. Mi auguro che gli italiani si accorgano di quanto stia facendo male al lavoro e all’ambiente la demagogia anti-industriale e l’ignoranza: se la tassassimo azzereremmo il debito pubblico, specie in un momento in cui da un movimento in dissolvimento si stanno contagiando altre forze politiche e organi di informazione. In Italia lo scudo politico lo hanno questi gruppi dirigenti: sanno che spararla grossa è garantito da un’immunità diffusa e consolidata su un senso comune inquinato quanto l’Ilva.