Fra i compiti che l’Italia dovrebbe darsi per l’anno nuovo ce n’è uno strategico: sarebbe essenziale scrollarsi di dosso un po’ di “masochismo anti-industriale”, espressione letta nei giorni scorsi sul Sole 24 Ore per stigmatizzare quel misto di incuria, pressapochismo e ignoranza ai quali la politica, l’informazione e talvolta anche la magistratura attingono quando si occupano di Industria. Davvero non si comprende come un Paese che nel 2018 ha esportato beni per 463 miliardi di euro e che nell’ultimo decennio ha tenuto in attivo la bilancia delle partite correnti per una quota che oscilla fra i due e i quattro punti di Pil possa maltrattare in questo modo i comparti economici che lo tengono in piedi. Troppo spesso in Italia tanti parlano di fabbriche senza averne mai visitato una, troppo spesso ci si imbatte in politici o opinion leader con una cultura anti-industriale o – forse peggio – a-industriale.

Il mondo non aspetterà la risoluzione delle nostre contraddizioni. Da una parte abbiamo il caso Ilva, con il suo incredibile groviglio di decisioni contraddittorie che stanno caricando la crisi sulle spalle dei lavoratori, che rappresenta la punta di un iceberg di un anti-industrialismo spesso tanto ideologico quanto superficiale. In parallelo la fusione fra Fca e Peugeot, per l’Italia l’operazione industriale più importante degli ultimi 20 anni, fa emergere con forza novità come quella della rappresentanza dei lavoratori nel Cda del nuovo gruppo, richiesta per la quale come Fim-Cisl ci battiamo da anni, che fa capire come l’evoluzione dell’industria sia un campo che continua a essere fecondo proprio sul piano sociale. Entrambi i casi si inseriscono in un contesto nazionale molto preoccupante. Negli ultimi giorni l’Istat ha aggiornato il bollettino della produzione industriale con dati gravissimi: a ottobre la produzione industriale è stata inferiore del 2,4% rispetto allo stesso mese del 2018 e dell’1,6% per i primi 10 mesi dell’anno. Pesante è l’arretramento dell’Automotive: -15,3% su ottobre 2018 e -9,9% su gennaio-ottobre 2018. Pesa soprattutto la flessione degli ordinativi dal mercato interno per autoveicoli e componenti aggravata dalla crisi della produzione d’auto in Germania, a sua volta vittima di un passaggio affrettato e confuso dal diesel all’elettrico.

Ma ciò che dovrebbe far scattare un allarme rosso nell’opinione pubblica italiana sono i recentissimi dati, sempre Istat, sulla produttività: quella del lavoro, misurata come rapporto tra valore aggiunto e ore lavorate, ha subito una decrescita dello 0,3% nel 2018. Nel periodo 1995-2018 la produttività del lavoro ha registrato una crescita media annua di appena lo 0,4%, derivata da incrementi medi del valore aggiunto e delle ore lavorate rispettivamente pari allo 0,7% e allo 0,4%. Nel periodo 1995-2018, la crescita media annua della produttività del lavoro in Italia è stata decisamente inferiore a quella dell’Ue a 28: 0,4% contro 1,6%. Anche la produttività totale dei fattori è diminuita dello 0,2% nel 2018. Si tratta della misura del progresso tecnico e dei miglioramenti nella conoscenza e nell’efficienza dei processi produttivi. Su questo fronte la variazione è pressoché nulla nell’arco temporale 1995-2018. Ed è positiva nel 2018, seppure ma di appena lo 0,1%, la terza misura della produttività, quella del capitale (indicatore di quanto capitale viene utilizzato in modo efficiente per generare l’output). Nel periodo 1995-2018 la produttività del capitale ha addirittura registrato un calo medio annuo dello 0,7%.