Editoriali
Questione industriale italiana, arretratezza tecnologica impedisce nuova occupazione

Dunque l’impasse della “questione industriale” italiana è un fenomeno strutturale sul quale è drammaticamente urgente intervenire non in modo episodico. Nessuno può illudersi che si ritorni all’industrialismo diffuso e “gigante” degli anni Sessanta quando si pensava che bastasse aprire una mega-fabbrica per risolvere le contraddizioni sociali di un territorio. Finì con le “cattedrali nel deserto” alle quali è impossibile tornare. Non foss’altro per il fatto che non esistono più in nessuna parte del mondo impianti industriali da 50.000 occupati com’era la Mirafiori. Occorre innanzitutto riallacciare un dialogo “culturale” fra l’industria e gli italiani tornando a fornire all’opinione pubblica le ragioni profonde dello sviluppo industriale. Si tratta di un lavoro complesso, di una “lunga marcia” che va percorsa nel tentativo di profilare una politica industriale coerente di cui l’Italia ha bisogno come il pane, ma anche a partire da operazioni come quella del libro “Fabbrica Futuro” (Egea Editore, 236 pagine, 22 euro) che ho scritto assieme al giornalista Diodato Pirone. La ragione ultima del libro è tornare a raccontare dopo tanti anni la linea di montaggio per quella che è davvero oggi.
Il libro racconta l’evoluzione del lavoro in cinque fabbriche automobilistiche italiane: Pomigliano, Cassino, Melfi, Mirafiori e l’abruzzese Sevel, la meno nota anche se è il più grande stabilimento europeo di furgoni. Nella grande fabbrica di Melfi, in Basilicata, dove esiste un polo industriale fra i più importanti d’Europa con oltre 20.000 addetti, compresi quelli dell’indotto e della logistica, è emerso che il contenuto di lavoro in ogni auto prodotta oggi è superiore del 20% rispetto a quello di vent’anni fa. Avete letto bene: vent’anni fa la fabbrica assemblava circa 350.000 auto l’anno con 6.000 dipendenti, oggi lo stesso stabilimento sforna 350.000 pezzi circa ma con 7.600 dipendenti. Com’è possibile? Essenzialmente per due motivi. Primo: le autovetture prodotte oggi (Jeep Renagade e Fiat 500X) sono molto più complesse di quelle lavorate negli anni Novanta (Fiat Punto). Una Jeep ha 273 optional e 18 tipi di motore contro i 131 optional e gli 11 motori della Punto. Secondo: il modello di business aziendale di Fca è molto più sofisticato di quello della Fiat di un tempo perché “vende” prodotti a 3 miliardi di consumatori nel mondo e non più ai 60 milioni di italiani o tutt’al più ai 500 milioni di europei.
Non è vero che i robot distruggono posti di lavoro ma è vero il contrario anzi, è l’arretratezza tecnologica che impedisce di creare lavoro. Non è vero che la fabbrica innovativa peggiora le condizioni di lavoro degli operai oppure che ha bisogno di tagliare le buste paga per restare in Occidente. Nel 2020, dunque, in Italia si può tornare a parlare di fabbrica come se fosse la “nostra fabbrica”, ovvero un bene sentito come un patrimonio dell’intera comunità? La risposta potrà essere positiva solo se gli italiani inizieranno a percepire la linea di montaggio per quello che sta diventando con l’avvento della digitalizzazione via Industry 4.0: un luogo di scomposizione del lavoro, ovvero di rimescolamento delle funzioni fra lavoro manuale e lavoro intellettuale e di crescita professionale complessiva. Se vogliono restare nel mercato, le imprese sono chiamate sempre più a produrre prodotti complessi che ingloberanno al loro interno anche quote di servizi (manutenzione, assicurazione, aggiornamento e sviluppo). Le aziende, dunque, sono obbligate a coinvolgere i loro dipendenti nel processo di aumento del valore aggiunto della produzione. Ecco perché paternalismo e antagonismo sono approcci non più adeguati e sempre più sterili mentre avanzano diversi modelli di “ingaggio cognitivo” che coinvolgono i lavoratori.
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