Forza Nuova fuorilegge? Letta prenda esempio da Silvio Gava

Forse prima ancora di sollecitare una mozione parlamentare per avviare la messa fuorilegge di Forza Nuova, il Pd avrebbe dovuto valutare perché nella storia repubblicana questa strada tutta politica sia stata ragionevolmente esclusa e comprendere in che termini poi si sia proceduto con un altro approccio per liquidare Ordine nuovo. Per una volta, Letta avrebbe trovato più giovamento attingendo alla cultura democristiana da cui proviene che non ad inseguire quella comunista che, può anche capitare, ha avuto torto negli anni sessanta ad impostare in termini politico-parlamentari la messa al bando dei missini, non di una minuscola escrescenza di teppisti.

Quando nel novembre 1961 era all’ordine del giorno lo scioglimento del Msi, che aveva ben altra consistenza di Forza Nuova, si svolse al senato una importante seduta attorno alla proposta avanzata da Parri tramite un disegno di legge che entrava anche in polemica con l’omertà mostrata dalla magistratura dopo i fatti del luglio 1960. Si levarono in aula alcune invettive contro gli azionisti (difesi con autentico calore proprio dal comunista che più sognava la lotta armata, Pietro Secchia, il quale lodava il Pd’A che invece di inseguire «alcune miserabili migliaia di voti» si era battuto nella resistenza con «una generosità sublime e meravigliosa»), e il dibattito si svolse però in punta di dottrina. Per conto della Dc a respingere il provvedimento Parri-Terracini parlò Silvio Gava. Il nome di questo esponente democristiano evoca ancora il simbolo di una cordata familista specializzata nell’adozione di una politica di controllo spregiudicato del potere. E però a distanza occorre rimarcare la finezza politico-giuridica presente nella sua argomentazione.

Macaluso invitava a riconoscere la rilevante cultura politica di Rumor che a suo parere non era stata debitamente rimarcata nel cuore delle polemiche quotidiane contro i dorotei. C’è da dire che anche nell’intervento pronunciato da Gava non mancavano gli indizi di una elevata elaborazione di cultura politica tipica della vecchia scuola democristiana. Nel mezzo di battibecchi con Cesare Luporini («se lei, che è un filosofo, avrà un po’ di pazienza, almeno la virtù della pazienza filosofica»), di dispute filologiche sul termine “stravagante” o “extravagante”, Gava si confronta con la dottrina giuridica del tempo (Barile, Predieri, Piccardi) mettendo in rilievo alcune criticità del disegno Parri (il turbamento dell’equilibrio dei poteri conseguente alla competenza conferita al principio di maggioranza nel determinare la legittimità di una forza politica) e formulando sbocchi nel segno di una complessiva saggezza politico-costituzionale.

Il cuore della sua argomentazione era che lo scioglimento di una organizzazione politica considerata eversiva, nelle modalità di un decreto governativo che facesse seguito ad una mozione parlamentare, racchiudesse un problema assai complesso e andasse maneggiato con una grande delicatezza sostanziale e correttezza procedurale. La questione della inoppugnabile individuazione dei tratti che attestano la inequivoca natura violenta di una formazione collettiva ha sempre rilievi tecnico-costituzionali e ancor oggi non è mai di scontata risoluzione. Affidarla ad una valutazione strettamente politica è assai problematico in considerazione della ragione essenziale della separazione dei poteri.
«La distinzione dei poteri non è, è vero, un diritto naturale come affermava giustamente Terracini, ma è una guarentigia essenziale dei diritti di libertà» e per questo, chiosava Gava, in una disposizione coercitiva sulla vita e la morte dei partiti nella quale sono in ogni caso coinvolti anche diritti soggettivi, civili e politici, di libertà è preferibile escludere il parlamento quale unico titolare della decisione. Spiegava Gava: «L’accertamento di un diritto soggettivo, sia per affermarlo, sia per negarlo, è sempre compito della giurisdizione e sarebbe un arbitrio condannevole che il parlamento si pronunciasse su un diritto soggettivo».

Per non turbare il delicato equilibrio dei poteri non già il parlamento o il governo ma la corte costituzionale e le sfere giudiziarie erano da ritenere competenti nell’individuare la natura di un partito antisistema. Per sciogliere l’altro nodo dell’accertamento della avvenuta ricostruzione del disciolto partito fascista Gava si ricollegava all’interpretazione suggerita da Togliatti che delimitava il problema non alla ricomparsa di un generico soggetto di natura fascista ma alla più specifica ricostruzione del medesimo partito-regime egemone nel ventennio. Non basta riscontrare i fenomeni psicologici e politici associabili al fascismo (ossia dice Gava la «esaltazione del simbolismo spettacolare, della messinscena, della teatralità, del mito», il culto irrazionale dell’azione diretta e «il concetto esasperato di sovranità») o cogliere la esplicita volontà dei missini di perseguire una «revisione costituzionale in senso autoritario» per procedere con atti discrezionali. Deve esserci qualcosa di emergenziale e quindi un pericolo reale visibile e immediato per attivare le disposizioni richieste dall’irrinunciabile precetto Salus reipublicae suprema lex.

Diverso dalle dispute degli anni ’60 (con l’aporetica determinazione di sciogliere un partito e però mantenere in aula i deputati legittimamente eletti, come ammesso dallo stesso Lussu) è il fenomeno della minaccia fascista degli anni ’70 (dopo Piazza Fontana sino al 1982 si contano oltre 1100 morti e 350 feriti in azioni di violenza politica). Il decreto del Ministero degli Interni del 23 novembre 1973, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale dello stesso giorno, per definire lo scioglimento di Ordine Nuovo si richiamava alla «sentenza del tribunale di Roma 1a sezione penale, in data 21 novembre 1973» con la quale veniva accertata la natura fascista ed eversiva del movimento e la sua concreta minaccia alla vita delle istituzioni repubblicane. Il metodo di azione alternativo a quello democratico perché sia brandito con provvedimenti urgenti tipici di una situazione di necessità comporta un sistematico, continuativo ricorso effettivo o potenziale alla violenza fisica contro i singoli e le organizzazioni politiche e sindacali avversarie. Il concetto di nemico come destinatario di misure esemplari di punizione, vendetta, coercizione è il connotato principale che appura il volto violento di un partito fascista ricostruito e lo mette al bando con l’attivazione di misure d’urgenza dettate dalla acclarata necessità.

L’atto politico del 1973 faceva seguito alla sentenza che riconosceva in pieno la fondatezza analitica dell’impianto accusatorio di Occorsio, il quale pagherà peraltro con la vita la sua esemplare condotta di uomo delle istituzioni repubblicane. Affidare oggi al governo dietro mozione parlamentare, e prima ancora di un pronunciamento analogo a quello del Tribunale di Roma del 1973, il compito di reprimere con misure eccezionali un fenomeno eversivo non altrimenti contenibile perché refrattario ad essere trattato con le risorse dell’ordinamento è una trovata rischiosa e discutibile sul piano procedurale. Il saccheggio, la devastazione, il furto, la violazione della sede del più grande sindacato indica certamente una operazione selvaggia di inaudita provocazione simbolica e rileva in chi compie l’atto seguendo una strategia premeditata una profonda estraneità ai valori democratici essenziali. Però il gesto, nella sua carica distruttiva di cose e immagini, per quanto vile e odioso non prova ancora, e in maniera inoppugnabile perché depositata nelle forme di una sentenza, la utilizzazione sistematica della violenza come metodo prevalente di agire politico contro gli avversari.

L’accertamento di questo impiego di ritrovati cruenti di condotta associabili al concetto di nemico pubblico (che fa dell’altro il destinatario di una logica militare che si sviluppa nel segno della avversione totale e non esclude cioè la fisica eliminazione del singolo antagonista) spetta a organismi giurisdizionali e non può essere il frutto di una valutazione di carattere eminentemente politico, se non in presenza di circostanze di particolare gravità tali da mettere in dubbio con una realistica valutazione dell’aggressione la permanenza stessa dell’ordine repubblicano.
Scegliere come ha fatto Letta la via della parlamentarizzazione senza però ottenere una larga condivisione della mozione di scioglimento e anzi dividendo la stessa maggioranza di governo indica la prevalenza di calcoli politici rispetto alla preoccupazione per la effettiva gestione di una giuntura critica dell’ordinamento costituzionale. Su questi delicati temi il gioco politico, teso a snidare la Lega come partner ingombrante della coalizione governativa e a isolare Fratelli d‘Italia per rimarcarne la estraneità strutturale all’arco repubblicano, dovrebbe procedere con maggiore cautela valutando sempre i rischi che comporta per il partito più solido in circolazione privilegiare in maniera spregiudicata lo strumentalismo tattico nella lotta a un pericolo reale.

È probabile che la richiesta di scioglimento immediato di Forza Nuova, in assenza di una solida sentenza, conosca la medesima parabola avuta dalle proposte del voto a 16 anni, del sacerdozio femminile e dello ius soli e cada presto nel dimenticatoio. È il destino inevitabile della politica intesa non più come proposta attendibile ma come propaganda che aspetta, persino in condizioni presentate come di allarme democratico, di produrre solo degli effetti effimeri nei sondaggi. Non è comunque indice di un elevato senso delle istituzioni l’anticipare con un giudizio politico un lavoro di accertamento garantistico che è in corso nei tribunali. Si inietta la sensazione che la sentenza risponda a un ordine politico precedente. Una grande forza politica non tende mai a restringere gli spazi dell’agibilità politica e anche verso i movimenti più estremi e violenti il ricorso alla coercizione dovrebbe rappresentare per lei una risorsa davvero eccezionale perché l’ordinamento dispone delle risorse e delle procedure necessarie per gestire con efficacia tutte le condotte eversive individuali e di gruppo. Una democrazia aggredita ma che conserva ancora la saggezza repubblicana non affida a misure di polizia la propria sopravvivenza tanto più in una stagione caotica che vede i “liberali” cantare con i sovranisti inni di rivolta contro il fantomatico governo della tecnica e della dittatura sanitaria che condurrebbe dall’emergenza all’eccezione.