Il dibattito sviluppatosi in questi giorni sul possibile scioglimento di Forza Nuova ripropone il tema di quale sia il confine oltre cui la democrazia deve difendersi dai suoi nemici. Anche in questo caso la risposta la troviamo nella nostra Costituzione. Al contrario di altri ordinamenti, come quello tedesco, la nostra non è una democrazia protetta, in cui cioè i diritti, specie quelli politici, devono essere esercitati per finalità conformi a Costituzione. Le idee si combattono innanzi tutto con le idee, non con il carcere. Per questo motivo non esistono reati di opinione (ad esempio il negazionismo non è reato in sé ma un’aggravante) e vi possono essere partiti antisistema. Così abbiamo avuto partiti monarchici nonostante la Costituzione vieti la revisione della forma repubblicana (art. 139) o partiti indipendentisti, come la Lega Nord, nonostante l’art. 5 proclami l’unità e l’indivisibilità della Repubblica.

Di contro la nostra non è una democrazia ingenua o imbelle che accorda sempre e comunque libertà ai nemici della libertà perché l’illimitata tolleranza verso gli intolleranti alla fine porta alla distruzione dei tolleranti e alla scomparsa della tolleranza (Popper). Da qui lo stretto sentiero che la nostra democrazia è chiamata a percorrere: combattere gli intolleranti senza però adottarne i metodi, divenendo intollerante essa stessa e quindi snaturandosi; insomma, come scritto dalla Corte suprema d’Israele, una democrazia matura deve combattere i suoi nemici ma sempre “con una mano legata dietro la schiena”. Qual è, allora, il confine invalicabile tracciato dalla nostra Costituzione di cui dicevamo all’inizio? Il ricorso nel confronto politico alla violenza. Pertanto: le riunioni sono vietate non per quel che si discute ma perché non ci si riunisce in “modo pacifico e senz’armi” (art. 17; per questo, detto per inciso, trovo illegittimo subordinare la concessione di spazi pubblici comunali alla firma di una dichiarazione antifascista); le associazioni sono vietate non per i fini perseguiti, tranne che siano vietati già al singolo dalla legge penale, ma se agiscono in modo segreto o hanno una organizzazione di carattere militare (art. 18); la libertà d’espressione è limitata solo se vi è il reale e concreto pericolo che le parole si trasformino in “pietre”, cioè in comportamenti violenti (art. 21; v. il dibattito sul ddl Zan); non vi sono limiti ideologico-politici alla libertà di organizzazione sindacale (art. 39); la cittadinanza, e quindi il diritto d’elettorato attivo e passivo, non si può perdere per motivi politici (art. 22); i partiti, infine, devono agire non per un fine ma con “metodo democratico” (art. 49).

Rispetto a tale quadro costituzionale fa eccezione la XII disposizione finale che vieta la “riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del disciolto partito fascista”. Quello fascista, dunque, è l’unico partito vietato in Costituzione perché incompatibile con lo Stato democratico per le sue finalità ideologiche e non solo per il suo connaturato metodo d’azione violento. Tant’è che, per l’art. 1 della legge Scelba (n. 645/1952), si ha riorganizzazione del disciolto partito fascista non solo se si esalta, minaccia o usa “la violenza quale metodo di lotta politica” ma anche se si propugna “la soppressione delle libertà garantite dalla Costituzione”, si denigra “la democrazia, le sue istituzioni e i valori della Resistenza”, si svolge “propaganda razzista”, si esaltano “esponenti, principi, fatti e metodi propri” del partito fascista, infine si compiono “manifestazioni esteriori di carattere fascista”. Il giudice costituzionale e quello ordinario hanno però interpretato tale disposizione in modo restrittivo, ritenendo da vietare non ogni partito totalitario o i movimenti politici neofascisti in sé ma solo se questi ultimi operano nella vita politica del paese con modalità che si estrinsecano nell’esaltazione e nell’uso della violenza. Anche il pensiero fascista, dunque, è tutelato dalla libertà d’espressione, a meno che “non implichi il pericolo di una possibile ricostituzione di un partito avente gli stessi metodi e gli stessi scopi del fascismo” (Cass., II pen. 7560/1982).

Per essere sciolta, dunque, una forza politica neofascista deve svolgere attività violente e illecite in modo ripetuto e diffuso tra i militanti, tali da configurare, in relazione al momento e all’ambiente in cui sono compiute, il reale pericolo “di ricostituzione di organizzazioni fasciste, (…) attentando concretamente alla tenuta dell’ordine democratico e dei valori ad esso sottesi” (Cass., V pen. 36162/2019). Per questo motivo le riunioni pubbliche in cui si compiono manifestazioni usuali del disciolto partito fascista, come il saluto romano, vanno sciolte solo se idonee a tale scopo, e non invece un intento meramente commemorativo (Corte cost. 74/1958 e 15/1973); per lo stesso motivo, l’apologia del fascismo è punita solo però se “tale da potere condurre alla riorganizzazione del partito fascista” (C. cost. 1/1957). Questo è il motivo per cui i giudici hanno ravvisato l’avvenuta ricostituzione del disciolto partito fascista nei soli due casi di Ordine Nuovo (1973) e Avanguardia nazionale (1976); il Fronte Nazionale nel 2000 fu invece sciolto ai sensi della legge Mancino che vieta le associazioni che incitano alla discriminazione per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi). Ma, soprattutto, questo è il motivo per cui la XII disp. finale non è stata mai applicata contro il Movimento sociale italiano, benché proclamatosi orgogliosamente erede del partito fascista e composto anche da suoi esponenti, dato che tali ideali sono stati perseguiti accettando le regole del gioco democratico.

Alla luce di tali considerazioni, per il sistematico e diffuso ricorso alla violenza, Forza Nuova (come Casapound) da tempo andrebbero sciolti: non per decreto legge, non trovandoci per fortuna in presenza di un attacco imminente alle istituzioni democratiche, ma a seguito di sentenza anche non definitiva (e già ve ne sono) dell’autorità giudiziaria, come accaduto nei precedenti citati. È evidente che mettere fuori legge una forza politica è sempre decisione delicata che va attentamente ponderata perché si rischia di trasformare i dissidenti in perseguitati, cacciandoli fuori dall’arena democratica e, quindi, potenzialmente, nell’area dell’illegalità e anche dell’illiceità. Ma si tratta di preoccupazioni – inclusa quella del rischio di riciclo – che se assolutizzate, come in questo caso, finirebbero per provare troppo, di fatto negando l’utilità e la possibilità pratica di qualunque scioglimento e così consegnandoci a quella sorta di democrazia imbelle che la Costituzione, pur nel suo estremo pluralismo, ha rifiutato.

Così come certo non si può giustificare il mancato scioglimento di tali organizzazioni violente neofasciste dalla loro modesta dimensione (per quanto si tratti di forze politiche si presentano alle elezioni) non perché il fenomeno sia preoccupante in sé, come ha detto il presidente Mattarella (anche se soffia su diffuso disagio sociale), quanto per il rispetto che si deve al preciso confine posto in Costituzione tra legittimo dissenso, incluso il più estremo, e illegittima eversione. Perché la incrollabile fede nelle virtù inclusive della democrazia non implica l’accettazione sempre e comunque dei suoi nemici.