Per gli Stati Uniti il presidente è un re eletto per quattro anni e ha infiniti poteri, spesso sconosciuti e talvolta caduti in disuso, che lo rendono inamovibile. Adesso il problema dell’America e del mondo è come comportarsi se Donald Trump vincesse le elezioni del 4 novembre. Il suo vantaggio è solido e non accenna a diminuire e non solo gli americani ma il mondo intero cerca di calcolare e prevedere. Matteo Salvini si è sbilanciato apertamente a favore di Trump perché, dice, chiuderà la guerra in Ucraina. Ma Trump ha già provocato la mezza vittoria russa interrompendo per sei mesi l’invio delle armi per gli ucraini.

I presidenti, non solo quelli americani, non sono tutti degli stinchi di santo e tutti ricordiamo il repubblicano Richard Nixon (che aveva partecipato al primo dibattito televisivo contro John Kennedy, perdendolo) costretto a dimettersi dopo aver pubblicato le rivelazioni di due giornalisti che, a loro volta, ricevevano dritte e pizzini di un personaggio noto come “gola profonda”. Nixon è stato un gran mentitore – lo chiamavano “Tricky Dicky”, Dick l’imbroglione – ma fu certamente un presidente che chiudeva le guerre aperte dagli altri: quella del Vietnam iniziata da Kennedy e quella con la Cina comunista.

Prima di arrendersi in Vietnam (dove l’America si era cacciata in un vicolo cieco) fece decollare i bombardieri per mettere a ferro e fuoco il Vietnam del Nord, mentre a New York i nazionalisti scandivano lo slogan “bomb Hanoi”, cioè “bomba atomica” su Hanoi. Ma Dick Nixon ebbe buonsenso: aprì le trattative a Parigi con il leader vietnamita Ho Chi Minh (che si era guadagnato da vivere nei ristoranti di New York e aveva il mito di Abraham Lincoln) e riportò a casa i soldati americani dopo dieci anni di guerra brutale. Come Joe Biden in Afghanistan, lasciò tutte le armi e gli aerei al Vietnam del Sud, ma senza pezzi di ricambio. In un anno il Vietnam del Sud cadde e, riunificato, dovette resistere a un’invasione dei cinesi e si rivolse agli Stati Uniti per chiedere protezione. Per chi ha vissuto l’epoca di quella guerra, vedere oggi il Vietnam comunista in adorazione degli Stati Uniti è un colpo di storia, o di scena.

Matteo Salvini ha detto che di aspettare la vittoria di Donald Trump per far arrivare finalmente la pace in Ucraina. E ha aggiunto di aver capito che quando vincono i democratici si va alla guerra (Kennedy, Johnson, e poi Clinton e Obama), mentre quando vincono i repubblicani (Reagan, Ford, la dinastia dei Bush e poi il primo Donald Trump) si va verso la pace. Non è vero: la guerra all’Iraq l’ha scatenata George W. Bush commettendo il più grande errore del secolo per dare una risposta sbagliata all’attentato di Al Qaeda dell’11 settembre 2001. E in secondo luogo sì, in parte, è vero.

I repubblicani tendono a cauterizzare le ferite e a promuovere ricchezza e affari, non cantano di certo l’Internazionale, ma semmai inneggiano all’Isolazionismo. Il Partito repubblicano fu un’invenzione di Abraham Lincoln per fronteggiare l’onnipotente Partito democratico nel Sud. Un partito schiavista. Ancora oggi i democratici degli ex Stati Confederati Sud sono più a destra dei repubblicani, con un sospetto di razzismo. John Kennedy – il divo liberale creatore del mito della “Nuova Frontiera” – scelse come suo numero due lo scialbo democratico del Sud Lyndon Johnson (con una First Lady che si faceva chiamare Lady Bird, “uccellino”) affinché gli portasse i voti dei suoi elettori più reazionari, fedeli al Partito democratico dei tempi lontani. Ma una volta diventato lui presidente, Johnson mise fine al regime di apartheid instaurato dopo la liberazione degli schiavi. Usando l’esercito, la Guardia Nazionale e sfidando il Sud razzista alla guerra civile, pronto a schiacciarla.

Giurò davanti al cadavere di John, assassinato a Dallas dal tiratore scelto che aveva fatto il servizio militare a Mosca, Lee Harvey Oswald, il quale a sua volta fu ucciso davanti alle telecamere dal proprietario di una casa da gioco, Jack Ruby, malato terminale. Seguì una catena di fantasie di complotti e omicidi di cui la mia generazione si è nutrita per vent’anni seguendo gli sviluppi dei lavori della Commissione Warren. Il leader cubano Fidel Castro fu sospettato di essere il mandante dell’omicidio come rappresaglia contro la tentata invasione di Cuba da parte di un esercito raccogliticcio di esuli cubani e che sbarcò a Playa Giron ad est di Bahia de Cochinos, la famosa “Baia dei Porci” dove le truppe di Castro li aspettavano per farne polpette. E poi Kennedy aveva chiuso Cuba in un blocco navale durante la crisi dei missili quando si sfiorò la Terza guerra mondiale. Si seppe poi che c’era stata una talpa nel Dipartimento di Stato e che un doppio agente aveva informato Castro.

La guerra fredda era caldissima ma i fatti sbiadiscono rapidamente nella memoria. E oggi è difficile trovare chi ricorda bene l’attentato dell’11 settembre, “Nine eleven”. Rudolph Giuliani era allora il sindaco di New York e si guadagnò il titolo di sindaco d’America. Oggi lo stesso Rudy, una volta eroico e in ascesa, è schiacciato dai processi contro Donald Trump di cui Rudy Giuliani era avvocato, dopo essere stato per decenni uno dei più importanti procuratori di New York, amico di Giovanni Falcone. Giuliani è anche la testimonianza vivente della politica delle quote per gli immigrati: quando i suoi avi furono ammessi a imbarcarsi a Genova per sbarcare ad Ellis Island, vicino alla Statua della Libertà, quell’anno l’America accettava soltanto italiani del Nord e non voleva emigrati dalla Sicilia e dalla Campania.

Non è un caso che negli Stati Uniti sopravviva fra i tanti cliché o luoghi comuni la leggenda del tipo fisico italiano simile al personaggio Super Mario: basso, laborioso, pelle scura e grandi baffoni. Due giorni fa uno Stand-Up di pelle scura con grossi baffi ha detto: “Sono stato in Africa dove ho visitato un grande database di DNA per poter dire ad ogni africano quale fosse la sua antica tribù di provenienza. Quando ho chiesto della mia, mi hanno risposto: italiana”.

Il pubblico rideva perché i cliché fisici e linguistici restano e io mi sono sentito chiedere che razza di italiano potessi essere con i capelli rossi e occhi azzurri. Lincoln creò dunque il Partito repubblicano come partito patriottico pronto a rispondere con le armi a una sedizione armata. L’America si regge sul patriottismo che è una cosa non soltanto seria, ma che nasce dalla Costituzione, più nota e venerata della Bibbia. Lincoln chiese a Giuseppe Garibaldi se volesse assumere il comando di una divisione nordista, ma Garibaldi aveva già troppo da fare sia con l’Italia che con le guerre sudamericane. È dunque vero che i democratici portano alla guerra e i repubblicani portano alla pace? Storicamente non si può negare. Ma solo in parte.

Il presidente repubblicano Teddy Roosevelt fece guerra alla Spagna per abbattere l’ultimo impero europeo su suolo americano. Invase Cuba scendendo dalla nave a cavallo, cadde col cavallo ma aveva senso dell’humor e sussurrava il suo famoso motto: “Parla piano e impugna un nodoso bastone”. Era lo zio del più noto Franklin Delano Roosevelt che sarà presidente democratico anche durante la guerra per ben quattro turni. Per questa anomalia fu varato un emendamento che riduce i mandati a due. Ma Teddy Roosevelt il vecchio, ventiseiesimo presidente e premio Nobel per la pace nel 1906, era un repubblicano idealista e guerrafondaio perché voleva abbattere tutti gli imperi del mondo, a cominciare da quello britannico, quello zarista e ottomano.

Fu un vero paradosso che tanto zelo antimperialista servì per cacciare gli spagnoli da Cuba ma mise in braccio all’America la colonia spagnola delle Filippine, dove oggi si parla inglese e tutti hanno un nome spagnolo. Gli Stati Uniti erano diventati colonialisti come gli europei, cosa che provocò un furioso scontro identitario finché – con la fine della Seconda guerra mondiale – il generale Eisenhower restituì alle Filippine la piena libertà. Franklin Roosevelt fu presidente durante la Seconda guerra mondiale ma non ne voleva sapere di mandare i suoi cittadini a combattere in Europa. Roosevelt fu molto più vicino al Trump di oggi perché non voleva saperne di una guerra altrui dopo il costoso intervento nella Grande Guerra.

Gli americani, allora come oggi, tendono a ignorare quel che succede nel resto del mondo, raramente viaggiano, raramente parlano una seconda lingua. Winston Churchill implorava Roosevelt di intervenire contro l’invasione nazista, ma Roosevelt rispondeva con parole enfatiche e spedendo convogli che portavano in Inghilterra carburante, armi, munizioni, medicinali, cibo. Quelle navi erano l’obiettivo dei sottomarini tedeschi U-Boot che prima di affrontare l’Atlantico facevano il pieno di nafta russa sul Mar Nero finché durò l’alleanza tra Germania Nazista e Unione Sovietica.

Alla fine fu Hitler a dichiarare guerra all’America e quella guerra, prima con Roosevelt e poi con il suo vice Harry Truman, produsse una profonda rivoluzione antinazista e subito dopo un’ondata di anticomunismo ideologico specialmente fra gli intellettuali di Hollywood, sospettati di essere comunisti e quindi agenti sovietici. Fu la caccia alle streghe di Arthur Miller e l’inquisizione della commissione McCarthy. L’America di oggi ha cambiato molte volte pelle perché in questo momento nelle università americane si chiede conto a docenti e amministratori di aver coperto sotto le bandiere palestinesi una violenta ondata di antisemitismo. L’idea di Trump è infischiarsene degli alleati e invitare Putin a banchettare con le spoglie dell’Europa e lo ha già fatto fino alla settimana scorsa bloccando gli aiuti all’Ucraina. È questo che manda in estasi Matteo Salvini?

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Giornalista e politico è stato vicedirettore de Il Giornale. Membro della Fondazione Italia Usa è stato senatore nella XIV e XV legislatura per Forza Italia e deputato nella XVI per Il Popolo della Libertà.