“Ladies and gentlemen, Sua Maestà elettiva, il presidente degli Stati Uniti d’America”, propose John Adams, vicepresidente di George Washington. Il primo Senato americano contropropose: “Sua Altezza Magnificenza, il presidente degli Stati Uniti, Protettore delle Libertà”. Quando nacquero gli Stati Uniti al Congresso continentale di Filadelfia il 4 luglio 1776, le nazioni erano governate da monarchi o imperatori, ed erano sia una democrazia che una Repubblica.

Quindi considerati un’offesa all’ordine costituito e una minaccia rivoluzionaria. Il nuovo Stato cercò di presentarsi con lo stesso livello di legittimità delle monarchie costituzionali ma George Washington fu subito sospettato di “cesarismo” essendo stato a lungo Comandante dell’esercito Continentale inglese durante la guerra dei Sette anni e poi vincitore della guerra contro la madrepatria inglese. In fondo, farsi proclamare re sarebbe stata una scorciatoia e pochi anni dopo Napoleone Bonaparte si sarebbe messo con le sue mani una corona in testa.

Da allora, ogni presidente è stato accusato di voler diventare un aspirante tiranno della instabile democrazia americana. Oggi come ieri, il tema resta lo stesso: vincerà la Costituzione o la tirannia? In America se ne discute da vent’anni perché la forma democratica è lacerata e perché i cittadini americani vanno perdendo quel patriottismo che spesso ci impressiona quando andiamo da loro e li vediamo compiere quei riti un po’ fuori misura, come mettersi una mano sul cuore e l’altra sulla spalla di un figlio quando suona l’inno “The Star-Spangled Banner”, nato sotto le bombe inglesi del 1805. Ma per la mia esperienza, non è retorica.

È ciò che tiene in piedi la democrazia di quello stupefacente paese. Se crolla l’affezione dei cittadini, crolla l’istituzione. E oggi, in vista delle elezioni del 4 novembre, questo è il problema maggiore. Gli americani si fidano sempre meno e le possibilità tecniche per una tirannia esistono e sono tutte legali. Noi italiani abbiamo in genere idee piuttosto sommarie sia sulla forza che sulla fragilità costituzionale americana, come sperimentai quando cominciai a frequentare gli Usa dal 1992 per seguire le vicende di Woody Allen accusato dalla moglie Mia Farrow di molestie sessuali nei confronti della figlia adottiva Soon-yi Previn, che Allen sposò e con cui ha due figli.

Scoprii allora l’anima perversamente puritana che adora la “manhunt”, la caccia all’uomo e alle streghe. Per fortuna la caccia all’uomo ha come contrappeso il tifo per l’underdog perdente, braccato ma aiutato dai libertarians che resistono al culto fondamentalista introdotto dai Padri Pellegrini fin dal 1620. L’idea di chiamare “Maestà” il presidente americano fu abbandonata, ma fu creata in compenso la First Lady come una regina consorte in grado di non sfigurare tra le vere regine. Ne fece le spese Elisabetta Seconda quando ospitò a Londra il presidente John Kennedy con la sua sofisticatissima moglie francese Jacqueline Bouvier, che la umiliò definendola una massaia che vive in una casa disgustosa.

Gli americani hanno indistruttibili pregiudizi su di noi, ma abbiamo ottenuto che negli States il prosciutto si chiamasse “proshuto” e il gelato “geladdo”. Ma gli Stati Uniti sono l’unica nazione di lingua inglese sull’orlo di una crisi di nervi devastante. Oggi lo sono di fronte alla possibile tirannia di Donald Trump come lo furono con la guerra civile, per la depressione del 1929, durante l’abolizione della segregazione razziale, per la guerra del Vietnam e l’assassinio di John Kennedy, e oggi per la divisione verticale fra isolazionismo e interventismo. Donald Trump piace perché è isolazionista: “Vogliamo commerciare e arricchirci, non fare la badante dell’Europa e tu, caro Putin, fai quel che ti pare purché non ti metta di traverso ai nostri interessi”. Joe Biden ribatte che l’America deve essere influente su ogni area del mondo e prima di tutto dell’Europa.

I due si danno del potenziale tiranno e si accusano di voler varcare il loro Rubicone che si chiama Potomac. Gli americani per la prima volta sentono i loro leader mettere in discussione la sostanza della loro democrazia. Ecco una differenza fra noi e loro: noi parliamo di democrazia, loro riconoscono soltanto la Costituzione che è una Bibbia con la sua genesi e i suoi emendamenti. Ma la Costituzione è fragile, tant’è vero che la Corte Suprema dà ragione a Trump quando sostiene che il presidente gode di immunità. Un numero crescente di americani si chiede quanto la libertà sia messa al rischio dello spettro autoritario, eterno incubo della fragilità americana. La statua di Abraham Lincoln siede su un trono decorata da fasci littori, simboli della Rivoluzione francese e il loro incubo è che Cesare attraversi il Potomac con le sue legioni perché la loro adorata Costituzione è fondata sul patriottismo individuale più che sulla parola scritta, mentre la sola parola scritta permette la tirannia.

Per esempio, grazie all’“Insurrection Act”, un presidente può decidere di schierare esercito e Marina contro una rivoluzione interna e numerosi presidenti l’hanno fatto 30 volte per impedire scioperi o sconfiggere la segregazione. Il Brennan Center elenca 135 poteri ordinari del presidente che può bloccare conti correnti e chiudere Internet. Donald Trump ne ha fatto uso per il suo muro col Messico e Joe Biden per difendere i prestiti studenteschi. Il Congresso non ha il potere reale di rimuovere un presidente sottoposto a impeachment e vive sotto l’incubo del tiranno costituzionale. Durante la guerra civile Abraham Lincoln sospese l’Habeas Corpus e Franklin Roosevelt fece chiudere un campo di concentramento per cittadini americani di origine giapponese (ma anche tedesca e italiana) senza un processo. Per questa fragilità l’America si è data il ventiduesimo emendamento che limita a due i mandati.

Gli Stati Uniti hanno 247 anni di storia ma la sua Costituzione idealista si è ispirata a quelle delle repubbliche latinoamericane di allora, ciascuna finita in una dittatura. Si misura la fragilità democratica dalla disaffezione individuale del patriottismo dei cittadini. In compenso, le forze armate hanno sempre costituito un baluardo democratico perché il personale è selezionato con criteri a prova di follia presidenziale. Dopo lo scandalo Watergate, il Dipartimento della giustizia prese l’abitudine di indagare preventivamente ogni presidente, cosa che da noi sarebbe impensabile. Oggi i candidati si accusano – ed è la prima volta – di voler distruggere la democrazia: Joe Biden esibisce la sua sacrale sottomissione alle istituzioni ma cedendo ad atteggiamenti aggressivi, mentre Trump ripete la battuta “Accetteremo il risultato, ma solo se vincerò io”. Alcuni deputati democratici propongono di non concedere la vittoria a Trump neanche se fosse autentica.

La catastrofe americana eternamente annunciata è stata descritta dagli scrittori britannici George Orwell, Aldous Huxley, Robert Harris e prima di tutti dal russo Evgeny Zamyatin, fuggito che pubblicò in America il romanzo “We” (Noi) in cui descriveva un 26esimo secolo in cui gli esseri umani erano chiamati con un numero e lobotomizzati. Quel testo ispirò “1984” di Orwell e la canadese Margaret Atwood creò Gilead, nota in Italia per la serie dell’Ancella, Sinclair Lewis descrisse una involuzione nazista degli Stati Uniti e Philip Roth col suo complotto contro l’America ha descritto il trasvolatore Lindbergh nazista come presidente hitleriano. Nessuno scrive sulla possibile sorte di altri Stati, perché ciò che accende la fantasia, l’odio, il rancore, la passione sono solo loro: le antiche colonie del pianeta oltre l’Oceano dove utopie e distopie si divorano temendo e amando il futuro.

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Giornalista e politico è stato vicedirettore de Il Giornale. Membro della Fondazione Italia Usa è stato senatore nella XIV e XV legislatura per Forza Italia e deputato nella XVI per Il Popolo della Libertà.