Condannato per trentaquattro capi d’imputazione che confluiscono in un solo delitto: aver pagato la porno star Stormy Daniels perché stesse zitta su una vecchia sveltina che sembrava dimenticata. Dopo aver intascato i 130mila dollari, Stormy ha tirato a Donald – sessualmente descritto come un bruto – nella classica “sex revenge”, la vendetta sessuale che consiste nel mettere in piazza segreti tutti di natura oscena. Tuttavia, questi non sono i fatti più importanti perché è in crisi verticale lo stato della democrazia americana fatta di tradizioni e dispute leguleie su milioni di pagine di liti altrui.

L’America sta per esplodere e l’elettorato dà segni di insofferenza dovendo scegliere fra Trump e Biden dopo che entrambi hanno regnato molto e in età avanzata. L’americano medio, seguito da tutte le reti televisive in mille reportage, dice di non saperne niente di politica ma che non sa più quale sia la politica dell’immigrazione. Il comico Jerry Seinfield ha rimesso in rete un vecchio sketch in cui si dice che anche i dentisti hanno successo perché hanno un sogno americano e vanno considerati esseri umani come tutti. La crisi identitaria americana è molto più avanzata di quella europea e non parliamo di quella italiana, seguita da quella inglese, perché il frazionamento della società per generi e per razze e religioni e posizioni determinate dall’appartenenza, scardina sia le università che i licei e il mondo delle arti e della scienza.

La menzogna

La vicenda Trump cade come una granata con la miccia accesa perché i tempi sono tali da trasformare ogni scintilla in una catastrofe e il comportamento di Trump fa l’effetto dei test delle macchie d’inchiostro, di per sé insignificanti ma in cui ognuno crede di vedere quel che gli passa per la testa. L’America è piena di macchie d’inchiostro. Dunque, quest’uomo ha mentito al suo popolo mentre il suo popolo doveva valutare se fosse o no meritevole del suo voto. E nelle strade l’America rumoreggia, i repubblicani pro-Trump mostrano i pugni davanti ai tribunali e alle istituzioni.
Tutti si chiedono: e adesso? Mai era accaduto prima che un ex Presidente potesse (almeno teoricamente) finire in galera dopo essere stato riconosciuto colpevole da una normale giuria di 12 suoi pari sorteggiati dagli elenchi dei cittadini di Manhattan, New York City. Tutto – il processo e il clamore istituzionale che ne deriva – ha a che fare con un unico delitto: la menzogna. Non in senso generico, ma mentire all’elettore americano che è anche il tax payer, il contribuente. Da noi è inconcepibile. Tutti sappiamo che si mente e che i politici non fanno eccezione. Ma per gli americani mentire al popolo con dichiarazioni false è un oltraggio americano che noi non sappiamo immaginare. È come quando troviamo buffo o ridicola la mano sul cuore se parte l’inno nazionale.

Il caso Clinton-Lewinsky

Il presidente Bill Clinton fu sottoposto nel 1996 ad un processo umiliante per aver avuto una storia di sesso (orale) con una stagista alla Casa Bianca, Monica Lewinsky, oggi personaggio televisivo popolare. Per Hillary, la moglie di Bill allora First Lady e poi Segretaria di Stato e candidata perdente alla Casa Bianca, non fu certamente un momento facile e ricordo, vivendo a quell’epoca a New York, che non si parlava di altro nel 1996 e 1997.
Ma la gravità, allora come oggi, non consiste nell’abuso o nel commercio sessuale, ma nell’aver mentito alla nazione: il reato di spergiuro di fronte al popolo sovrano. È per questo motivo che il popolo americano si sente in diritto, per tradizione e garanzia costituzionale, di vedere i candidati letteralmente fatti a pezzi, specialmente quelli che corrono per la Casa Bianca, da un giornalismo spietato e sadico che mette i candidati nudi come vermi di fronte ai loro elettori.

“Niente di personale, è solo business”

Naturalmente i candidati mettono in campo le loro costose squadre di reporter per danneggiarsi a vicenda, dita negli occhi e senza alcuna pietà. Un esempio recente: la candidata repubblicana Nikki Haley si è battuta come una leonessa alle primarie contro Donald Trump che la insultava dandole della lavandaia, risponendo per le rime e anche oltre. Per un po’ l’ex ambasciatrice americana alle Nazioni Unite è sembrata il faro di una nuova luce che avrebbe potuto far cedere insieme democratici e repubblicani. Poi Nikki quando ha visto che i “donors”, cioè quelli che pagano per permettere al loro cavallo favorito di andare avanti, avevano chiuso il portafoglio, ha capito che era finita. La Haley si ritirò e due giorni fa ha detto tranquillamente che avrebbe votato Trump. Vale l’antico sketch degli uomini di Al Capone che rassicuravano l’uomo cui stavano per sparare dicendogli: “Nothing personal, just business”.

Clinton aveva fatto un clamoroso passo falso mandando in onda un video in cui rassicurava la moglie e l’America proclamandosi innocente. E Trump si è sempre dichiarato innocente di fronte all’accusa di aver truccato le elezioni del 2016 (in cui venne eletto) negando la faccenda dell’hush money e altre faccende imbarazzanti contenute in una registrazione nota come “Access Hollywood”.
Non si tratta di moralismo da quattro soldi per la tradizione americana fin dalla rivoluzione. Il candidato che ha commesso un reato per chiudere la bocca di una porno-star riempiendogliela di dollari, nonché ex uomo più potente del mondo, e candidato a tornare ad esserlo se rieletto, non ha fatto una piega. Mai era accaduto prima e gli Stati Uniti sono abbastanza sconvolti, ma non lui.

Emessa la sentenza dopo nove ore di camera di consiglio della giuria popolare, Trump non ha mai pianto e non ha mai riso durante il processo, passando decine di ore impietrito, salvo qualche lento movimento del collo per dire no. Maggie Haberman del New York Times che ha vissuto il processo nell’aula dalle luci taglienti di un piccolo tribunale del sud dell’isola di Manhattan racconta: “Tutto è finito alla svelta: è entrata la giuria confermando di aver raggiunto il verdetto. Quando gli hanno chiesto quale fosse il suo verdetto e quello degli altri undici giurati è andato al microfono e ha detto: ‘Colpevole’. Donald Trump ha chiuso gli occhi. Poi li ha riaperti scuotendo lentamente la testa”. Donald Trump ha mosso i suoi passi lentamente verso le telecamere dei reporter: “È stata una trappola organizzata da chi oggi detiene il potere per impedirmi di tornare alla Casa Bianca”. Fuori dall’aula il finimondo. Da una parte i nemici di Trump che inalberavano il cartello “Guilty”, colpevole, sul marciapiede opposto i trumpiani furibondi.
Sono arrivati alle minacce di rivolta e alcuni giornali parlano di guerra civile.

Trump rischia la prigione?

Intanto, che ne sarà dell’ex Presidente minaccioso impietrito e zazzeruto? Rischia di finire in galera? Improbabile perché si appellerà, ma il giudice Merchan deve stabilire la pena e la cauzione (la giuria che decide soltanto la colpevolezza o l’innocenza) che, se fosse impagabile, lo spedirebbe dietro le sbarre. Ma in quel caso, gli uomini del Secret Service andrebbero con lui in galera, perché il Secret Service non è un’agenzia di spionaggio ma una istituzione che ha l’obbligo di proteggere sempre, anche contro la sua volontà, ogni Presidente, First Lady, membro della famiglia e ogni ex Presidente con i suoi cari. Gli uomini del SS non hanno a che fare con la Cia o l’Fbi e rimarrebbero come cani da guardia in prigione con il loro protetto, dandosi il cambio.
Questi dettagli dicono quanto sia enorme ciò che sta accadendo in America e quanto questo processo, uno dei tre fondamentali andato a sentenza, possa fare da detonatore sia per una rivoluzione, che per una controrivoluzione, ma anche una tentazione di colpo di Stato. Tutti eventi che potrebbero portare alla morte dell’America che conosciamo e alla nascita di un’altra America, che non riusciamo neppure a concepire.

Di cosa è accusato Trump

Il reato commesso da Donald Trump è piuttosto banale: ha chiesto al suo “fixer” (aggiusta problemi) di dare di sua tasca 130 mila dollari a una signorina che fa la porno di professione e che sostiene di aver avuto un rapporto sessuale con Donald Trump, il quale ha sempre negato. Un pagamento sottomano, anticipato da un amico poi da ricompensare, si chiama “Hush money”. L’avvocato Cohen, che nel 2016 lavorava per Trump (e ora lo odia), secondo i giurati ha compiuto in silenzio la sua missione pagando la signorina che ha promesso in cambio di tenere la bocca chiusa, ma che mentiva perché poi ha fatto il diavolo a quattro sputtanando Trump. Ciò accadeva nell’anno in cui Donald Trump fu eletto Presidente. Noi italiani potremmo con larghezza di maniche morali dire, e allora? Dove sarebbe il tremendo delitto? Ha pagato una porno perché stesse zitta e invece poi è uscito furi tutto. Non è carino, ma dove sarebbe l’enormità dello scandalo?

La menzogna più del reato

L’enormità sta in qualcosa che per noi è difficile capire, anzi è ridicolo. Ma se non si capisce questo punto della gravità della menzogna si rischia di perdere il filo. Il delitto non è quello di aver pagato una donna con cui è andato a letto e aver poi falsificato i bilanci per poter restituire all’avvocato Cohen quanto da lui gentilmente anticipato dai suoi fondi personali. Trump ha già spinto la Corte Suprema a riconoscere che un Presidente ha, e mantiene, privilegi e prerogative come l’immunità. Ed è stato certificato che per quanto dice la legge, non esiste alcun problema se l’eletto alla Casa Bianca si trova in prigione scontando una pena. Non era mai accaduto, ma oggi può accadere. E allora? Allora, mancando una legge che vieti, l’eventualità di un presidente in galera che diventi Commander in Chief, è possibile. Ma resta in galera, protetto giorno e notte da due “suit”, i completi grigi dei gorilla, gli uomini del Secret Service pronti a morire e ad uccidere per un membro del sacro clan della Casa Bianca, Pennsylvania Avenue, Washington DC.

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Giornalista e politico è stato vicedirettore de Il Giornale. Membro della Fondazione Italia Usa è stato senatore nella XIV e XV legislatura per Forza Italia e deputato nella XVI per Il Popolo della Libertà.