De Luca chiude le frontiere della Campania per nascondere il crac della Sanità

Vincenzo De Luca è stato chiaro: se a maggio la Lombardia dovesse annullare le misure anti-Coronavirus, la Campania non esiterebbe a blindare i propri confini. Una posizione che il governatore ha sostenuto durante il confronto televisivo col collega lombardo Attilio Fontana e i colloqui col premier Giuseppe Conte. Tanto che, in vista della fine del lockdown, si parla della revoca del divieto di spostarsi da un comune all’altro e della contestuale introduzione del divieto di viaggiare da una regione all’altra. Troppo alto il rischio di un’impennata del numero dei contagi, dei posti letto occupati nelle terapie intensive e, plausibilmente, delle vittime. Altrettanto concreto il pericolo di un secondo stop alle attività che avrebbe conseguenze drammatiche per l’economia.

Dietro l’ostinazione con la quale De Luca si dice pronto a blindare i confini regionali, però, ci sono anche carenze di personale, posti letto inutilizzati e liste d’attesa lunghissime che non consentirebbero alla Campania di affrontare un’emergenza vera come quella con cui sta facendo i conti la Lombardia. Il primo deficit strutturale della sanità regionale è legato al personale. Per risanare il bilancio, la Campania ha dovuto risparmiare. E la voce che ha subito le sforbiciate più consistenti è proprio quella relativa al personale. In dieci anni l’esborso si è ridotto di un miliardo e mezzo di euro con la conseguenza che oggi mancano all’appello 13.500 tra medici, infermieri, operatori sociosanitari e amministrativi. Il Veneto, che conta un milione di abitanti in meno rispetto alla Campania, ha a disposizione 12mila unità di personale sanitario in più. A questo punto la domanda sorge spontanea: per risanare i conti della sanità campana, si poteva intervenire su altre voci di spesa? Sì, a cominciare dalla mobilità passiva, cioè da quei 300 milioni di euro che la Campania spende ogni anno per rimborsare i residenti che si curano nelle strutture sanitarie di altre regioni.

Senza dimenticare che negli ultimi dieci anni, mentre la spesa per il personale veniva drasticamente ridotta, l’esborso per beni e servizi è cresciuto del 4% e quello per i farmaci del 12. L’ulteriore conseguenza di questa politica è stato un aumento delle prestazioni offerte dalla sanità privata pari al 15%. “Mentre il pubblico è stato saccheggiato – sottolinea Lorenzo Medici, segretario generale della Cisl Funzione Pubblica della Campania – il privato è stato favorito. Più saggio sarebbe stato reclutare personale, rilanciare la medicina territoriale e razionalizzare la spesa per farmaci, beni e servizi”. Ecco perché, allo stato attuale, nella sanità pubblica campana manca il 25% del personale e l’età media di quello in servizio, causa il lungo blocco del turn-over, tocca addirittura i 56 anni.

Questa carenza è particolarmente evidente in relazione a medici di base e pronto soccorso. I primi sono sempre di meno: molti sono andati in pensione e la Regione non li ha ancora sostituiti. Il venir meno di queste figure – le prime alle quali si rivolgono i pazienti – ha fatto aumentare gli accessi al pronto soccorso dove i carichi di lavoro per i camici bianchi sono cresciuti di pari passo col rischio di subire violenze da parte dei familiari dei ricoverati. Risultato: gli specialisti in medicina d’urgenza sono diminuiti del 30% e altrettanto “introvabili” sono altre figure come radiologi, tecnici di laboratorio, biologi, fisiatri, fisioterapisti e neuropsichiatri infantili. Il che, a sua volta, si traduce in liste d’attesa che oscillano da sei mesi, per prestazioni come un pap test al seno, a due anni, per un intervento chirurgico al colon.

La carenza di personale, inoltre, ha reso problematica anche la gestione dei posti letto. In Campania se ne contano poco più di 18mila, di cui 12mila pubblici (senza contare i circa 1.400 mai attivati). A questi non corrisponde, però, un adeguato numero di medici, infermieri e operatori sociosanitari. Emblematico il caso dei 72 posti di terapia intensiva riservati ai pazienti Covid presso l’Ospedale del Mare di Napoli. La legge, infatti, impone che per ogni coppia di posti ci siano un rianimatore, uno pneumologo, 15 operatori sociosanitari e 30 infermieri che coprano i turni per 24 ore al giorno. Sarebbe necessario anche un infettivologo, trattandosi di letti per pazienti affetti da un virus. Il reparto, invece, è stato allestito senza reclutare preventivamente il personale.

E ad ammetterlo, durante il consueto messaggio del venerdì, è stato De Luca in persona: “È vero, c’è carenza ma stiamo facendo di tutto per rimediare”. La Regione ha avviato alcuni concorsi che, nell’ultimo anno, hanno faticosamente portato ad assunzioni. Ma il problema complessivo non è stato ancora risolto, così come attende di essere decisa la sorte di 3mila precari il cui contributo, anche nell’attuale fase di emergenza, si è rivelato determinante. Insomma, se De Luca sembra pronto a trasformare i confini regionali in una trincea, è perché si trova nelle condizioni di un generale senza esercito. “Serve un sistema in grado di assicurare un’assistenza sanitaria adeguata sia nelle fasi ordinarie che in quelle di emergenza – conclude Medici – Se la Campania dovesse essere travolta da un’ondata di contagi più violenta, assisteremmo a una carneficina”.