L'intervista
Galletti: “Le imprese devono mettere a punto modelli vincenti di impatto sociale senza limitare l’impegno all’ambiente”
Il faro italiano di sostenibilità ambientale lancia un messaggio chiaro alla politica. Senza la società civile (Chiesa, terzo settore, associazioni) la partita dei territori difficili non si vince
Tra i politici italiani, Gian Luca Galletti è tra quelli che più si sono impegnati per la sostenibilità ambientale: è lui ad aver portato il Paese negli Accordi di Parigi e ad aver sottoscritto l’Agenda 2030. Oggi è presidente degli imprenditori cattolici e quest’anno ha voluto che l’Assemblea nazionale si tenesse ha guidato i suoi imprenditori. L’obiettivo? lanciare un messaggio chiaro alla politica: senza la società civile (Chiesa, imprese, associazioni…) la partita dei territori difficili non si può vincere.
Presidente Galletti, UCID ha scelto di tenere la sua Assemblea nazionale a Caivano. Un segnale forte in un territorio complesso. Perché questa scelta?
«Perché è nei luoghi più fragili che l’impresa deve esserci, fisicamente e simbolicamente. Abbiamo scelto Caivano non per motivi retorici, ma perché crediamo che l’impresa abbia un ruolo centrale nel riscatto dei territori. È facile parlare di responsabilità sociale dai quartieri benestanti, dalle aree produttive. È più difficile – ma più urgente – farlo nelle periferie».
Il decreto varato dal Governo per i territori difficili porta il nome proprio di Caivano.
«Non entro nel merito della risposta pubblica, dico attenzione: nessun intervento normativo, da solo, può trasformare un territorio. Serve lo Stato, certo, ma anche la società civile: corpi intermedi, volontariato, cittadini. E servono le imprese».
Che ruolo può avere, concretamente, l’impresa in un contesto come questo?
«Un ruolo chiave. L’impresa può creare lavoro, certo, ma anche trasmettere cultura del merito, legalità, formazione. Può essere un presidio di normalità, per così dire. Un giovane che ha davanti opportunità di lavoro dignitoso non cede alla criminalità. Il contrario dell’assistenzialismo è lo sviluppo».
Quale messaggio in arrivo dal territorio, e da figure come Don Patriciello?
«Un messaggio molto chiaro: c’è una comunità che resiste, che lavora, che vuole voltare pagina. Non a caso abbiamo portato esempi di imprenditrici e imprenditori che operano su questo territorio, anche con realtà eccellenti e riconosciute nel mondo: per dire che i germi del riscatto ci sono già. Don Patriciello si è offerto di ospitarci: è una figura simbolica e una persona unica, dietro di lui c’è una rete di persone che non si arrendono. Non siamo venuti qui a “portare soluzioni”, ma a dire: siamo con voi, apriamo un dialogo, che è un’occasione importante per le imprese per confrontare esperienze e modelli di impatto sociale».
L’Assemblea è stata pensata per prevedere il dialogo con i rappresentanti istituzionali. Quanto è importante il dialogo tra pubblico e privato in questo processo?
«È fondamentale. I territori si risollevano se si costruisce un’alleanza tra soggetti diversi, con linguaggi diversi, ma con obiettivi comuni. Per questo abbiamo voluto che fossero con noi il Generale Vadalà, che si occupa della bonifica delle aree contaminate, l’avvocato Romano, coordinatore delle Zone Economiche Speciali del Sud e il prefetto di Napoli, Michele Di Bari, primo promotore della legalità sul territorio».
L’iniziativa è replicabile?
«Assolutamente sì. Caivano per noi è un punto di partenza. Non vogliamo che sia un evento isolato, ma l’inizio di un metodo: portare l’impresa là dove c’è bisogno, accompagnare i processi locali di cambiamento, creare legami stabili. Lo sviluppo o è condiviso o non è. Il nostro Paese ha molte “Caivano”».
In un’Italia segnata da divari territoriali crescenti, che responsabilità ha oggi l’imprenditoria?
«Una responsabilità storica. Per troppo tempo lo sviluppo si è concentrato solo in alcune aree, lasciandone indietro altre. Non solo l’impresa, ma anche la politica che ha scelto, in altre epoche, di favorire concentrazioni produttive in alcuni territori e di riservare politiche assistenziali ad altri. Ora ce ne pentiamo. Se vogliamo un’Italia più giusta e coesa, l’impresa deve uscire da una logica puramente difensiva legata solamente ai bilanci o alle trimestrali. Serve interpretare un ruolo nel territorio che si abita».
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