Giustizia, si cambia: inizia l’era di Fabio Pinelli e Luigi Salvato

Non è vero che il ministro Nordio abbia baciato l’anello alle toghe. Non gli è consentito neppure di dire cose ovvie, come per esempio che il governo ascolterà “tutte le voci del sistema giustizia, dall’avvocatura all’accademia alla magistratura”. Ma che poi affiderà al “Parlamento sovrano” per la decisione finale ogni proposta di riforma. Povero Carlo Nordio! Costretto a fare il ministro di lotta e di governo, perché anche la normale attività di interlocuzione con tutto il mondo della giustizia a trecentosessanta gradi viene trasformato, ridotto, quasi infangato fin dalle prime agenzie di stampa.

Così l’intervento del ministro di giustizia all’inaugurazione dell’anno giudiziario viene tradotto in una sorta di resa incondizionata al potere dei pubblici ministeri: “Prima della riforma sulla giustizia ascolteremo le toghe”. Che pare un atto di sottomissione. Soprattutto se alla frase volutamente male interpretata se ne aggiunge un’altra ancora più ovvia, perché altro non è se non un riferimento alla Costituzione. E cioè che l’autonomia e l’indipendenza della magistratura sono “principi inderogabili che hanno accompagnato tutta la mia lunga attività professionale in procura. Se non avessi creduto e non credessi nella loro sacralità non avrei rivestito la toga, come spero di aver fatto, con dignità e onore”. Per quanto scontate, erano le parole che ci si voleva sentir dire. E non si è sottratto dall’applaudire subito, quasi sollevato, il presidente del sindacato delle toghe, l’Anm, Giuseppe Santalucia. Il quale ha voluto fermarsi a quei titoli, oppure ha voluto accontentarsi, per una volta, di vedere il proprio ruolo di magistrato accostato a quello dei professori accademici e “persino” degli avvocati. E ha buttato lì un “le parole del ministro sono di conforto”.

Un po’ meno confortata invece la Presidente del Consiglio nazionale forense Maria Masi, nel constatare non senza moltissime ragioni, quanto gli avvocati siano “fuori dai tribunali e dalle sedi di giustizia e non solo fisicamente”. E’ proprio così, molte quotidiane testimonianze mostrano come non soltanto la spocchia di certi magistrati ma anche del personale amministrativo tratti l’avvocato solo come una propaggine, quando non il complice, del proprio assistito. Sempre nell’attesa della mitica separazione delle carriere tra giudici e pubblici ministeri. Perché, finché il rappresentante dell’accusa farà parte del corpo della magistratura non ci sarà mai la vera parità con la difesa. E nelle aule dove si celebrano i processi penali la differenza si sente. C’è un modo diverso di portare la toga, non tutti i manti neri sono uguali, continua a esserci la toga giusta, quella dalla parte della ragione, e la toga sbagliata, quella dell’avvocato, sempre dalla parte del torto. Se ne sono accorti persino i ministri-avvocati, come l’indimenticabile Alfredo Biondi, che fu guardasigilli nel primo governo Berlusconi, e che si prese dell’ubriacone dal procuratore milanese Saverio Borrelli per aver raccontato in pubblico una battuta di suo padre avvocato. “Studia ragazzo mio– gli aveva detto il genitore- se no sarai costretto a fare il magistrato”.

Così, proprio perché un po’ tutti aspettavano il capo cosparso di cenere del ministro Nordio sul rapporto con gli ex colleghi in toga, sono poi passate inosservate altre sue osservazioni che non sono proprio da penitente in ginocchio, come quella che non c’è sicurezza senza il rispetto dei diritti. E qui c’è tutto Nordio, piaccia o non piaccia alla subcultura travagliesca. Quasi una rassicurazione, caso mai ce ne fosse bisogno, a un altro sacrosanto strillo dell’avvocata Masi: “In nome dell’efficacia e dell’efficienza, elementi indefettibili per un processo celere ma giusto, abbiamo sacrificato garanzie, principi e ora anche la certezza del diritto applicabile, a scapito, naturalmente, della tutela delle persone”. Ma, al di là del clima paludato e del consueto sfornare di numeri cui si è doverosamente dedicato il presidente della cassazione Pietro Curzio, due novità, di quelle che i grandi giornali appellano come “svolte”, ma solo quando se ne accorgono, vanno segnalate in questo inizio dell’anno giudiziario del 2023. Uno è rappresentato dal neo eletto vicepresidente del Csm Fabio Pinelli, che ha voluto dipingere un ritratto del magistrato, non solo come portatore del principio costituzionale di autonomia e indipendenza (a proposito, perché nessuno ricorda mai anche l’imparzialità?), ma si è spinto ben più in là.

L’ideale di chi indossa la toga, ha detto il nuovo capo del Consiglio superiore, è un magistrato “che si distingua per il rigore professionale, per il riserbo in tutti i comportamenti e per il rispetto della dignità delle persone”. Un piccolo decalogo che andrebbe appeso in ogni stanza dei palazzi di giustizia e magari anche nelle aule processuali. Così come non dovrebbe passare inosservato e in vera controtendenza quello che il procuratore generale della cassazione Luigi Salvato chiama” tema controverso”, cioè quello del rapporto diritto-informazione. Ma il pg alza il tiro, speriamo non involontariamente, sul piano culturale, perché mette in guardia dal confondere verità storica, verità giornalistica e verità giudiziaria. E suggerisce di ricordare sempre che “quest’ultima è solo quella raggiunta nell’osservanza del giusto processo di legge”. Confondere quest’ultima verità con le altre due, conclude l’alto magistrato, significa distruggere la base delle nostre libertà e quella “secolare conquista della civiltà giuridica secondo cui solo all’esito di un giusto processo si può essere definiti colpevoli”. Chissà quanti colleghi del procuratore condividono.