Alla Prova del cuoco, su Rai1, l’ultima innovazione è il “quarto giudice”: che sarebbe poi il pubblico da casa, che pesa sulla vittoria di uno dei due concorrenti per il 25% e giudica la bontà dei cibi senza averli potuti assaggiare né annusare. Vota l’idea, oppure la simpatia umana di chi ha cucinato. Il “democratico” televoto nacque più di vent’anni fa perché ci guadagnavano gli operatori telefonici e le reti televisive, adesso con le app è quasi tutto gratis ma intanto ci si è abituati a pensare che la valutazione del pubblico sia indispensabile, segno di apertura e interattività. “Voi siete fondamentali”, grida Barbara D’Urso agli spettatori mentre li invita a manifestare il “sentiment”, cioè una luce verde o rossa che si accende per premiare il protagonista più convincente (e condannare chi ha torto) alla fine di una discussione in genere sguaiata e sconclusionata. Mai la massa ha avuto tanta autorità in materia di gusto o di morale: “il pubblico ha sempre ragione” occupa una posizione intermedia tra il vecchio adagio commerciale “il cliente ha sempre ragione” e il nuovo verbo politico “il popolo ha sempre ragione”.
In tivù ormai ci sono giudici a ogni cantone: in primo luogo ovviamente nei talent, che siano di musica, di ballo, di cucina o di arte varia. Una caratteristica dei giudici da talent è di essere spietati e inappellabili: i più militareschi sono i cuochi, che addirittura esigono il “sì chef !”, ma anche negli altri casi ogni protesta dei concorrenti viene interpretata come ribellione e polemica, come qualcosa che può solo mettere in cattiva luce chi osa eccepire (“Questo tuo atteggiamento ti rende antipatico”). Capita, ma raramente, che i giudici se la prendano col televoto rivendicando una competenza specifica; il problema è che a volte la competenza specifica è proprio quello che manca ai giudici stessi (soprattutto quando nelle giurie compaiono membri aggiunti o onorari, attori che giudicano cantanti, sportivi che giudicano ballerini eccetera). L’attività del giudicare diventa essa stessa un elemento dello spettacolo, l’autorevolezza del giudice sfuma in un groviglio di psicologie e sospetti di finzione, che i conflitti e i voti bassi siano programmati dagli autori per fare audience.
Fin che si resta sul terreno dei talent, la presenza dei giudici è prevista e legittimata dal format; più insidiosa è la zona dei talk e dei reality, dove non ci sono giudici ma “opinionisti”. Per esprimere un’opinione la competenza specifica è meno necessaria, anche perché nei talk si parla di tutto, e nei reality a essere oggetto di valutazione è il modo d’essere dei concorrenti. Nessuna meraviglia quindi che qui ci siano soubrettes che parlano di etica pubblica, o imprenditori che discettano di sesso, o scrittrici di romanzi rosa a cui viene chiesto un parere sul Mes. Se un salotto dev’essere, già in Proust le padrone di casa che desideravano non risultare noiose interrogavano il medico sui pittori impressionisti e la cocotte sull’affaire Dreyfus. Quel che inquieta, semmai, è che quella di opinionista sia diventata una semi-professione; le opinioni sono espresse dalla solita remunerata compagnia di giro, da vip o supposti vip che traggono autorità dalla frequenza stessa con cui vengono invitati. La loro opinione è un giudizio implicito, un’influenza che esercitano sul grande pubblico che poi (per esempio nei reality) deve decidere chi eliminare dal gioco e a chi far vincere i gettoni d’oro.
Ma il vero regno del giudicare sono i social col loro sistema dei like, o del pollice verso; chi si avventura in quella foresta di rapporti interpersonali sa che ogni affermazione, o postura, o immagine, verrà immediatamente giudicata nel modo più elementare e drastico (mi piace/non mi piace), e che da quei giudizi dipenderanno popolarità e consenso. Su Instagram avere molti like diventa davvero un mestiere, perché è in base ai follower e ai like che le aziende decidono di affidare le loro campagne promozionali a questo o a quell’influencer; dunque non solo il conto in banca ma anche l’autorevolezza di un influencer dipendono dalla sua capacità di intercettare l’interesse del maggior numero di persone. Un influencer, al contrario di un opinionista, non è necessariamente un vip ma lo diventa a forza di interpretare il sentire comune: io sono uno di voi, ho le vostre stesse debolezze, anche tu puoi diventare come me. I frequentatori dei social hanno continuamente paura di esser giudicati, ma quelli più tosti e pieni di personalità si ribellano e reagiscono con un “non m’importa un c… se mi giudicate”; insensibilmente, stufo di sottoporsi a giudizi immotivati e privi di autorevolezza, il personaggio forte diventa ostinato (“io faccio quello che voglio e a voi non vi sento nemmeno, fatevi una vita”).
Varrebbe la pena di riflettere sulle analogie tra ciò che accade nel costume e le sue ricadute sulla pratica politica: dal televoto al voto il passo non è poi così lungo. Il sottotitolo di Tagadà, il talk pomeridiano di La7, è “tutto quanto fa politica” – ovvio ricalco dell’antico Odeon, tutto quanto fa spettacolo. La spettacolarizzazione della politica, che è un dato ormai acquisito, agisce sul rapporto tra politica e giudici: i politici devono guadagnarsi i like e i giudici, nel senso più serio e giudiziario del termine, devono stare attenti a non entrare da protagonisti in quella vera e propria sindrome sociale che è il “giudicare diffuso”. Le masse sono volubili, il loro giudizio è spesso imponderabile; i sondaggisti si spremono le meningi per tentare di capire se una presa in giro sui social favorisca un candidato o lo danneggi, se l’essere molto odiati (e presi di mira dai giudici) valga come pubblicità, quali argomenti siano moltiplicatori di fanatismo e quali invece siano tabù che portano al precipizio. Più i giudizi (e i giudici) diventano invasivi, meno gli si riconosce autorevolezza; più un giudice fa clamore e spettacolo, meno è credibile.
Un Paese ossessionato dal giudizio diventa un Paese ostinato, sempre meno disposto a confrontarsi in maniera ragionevole.
