L'appello
Care Sardine, attente alle sirene del populismo

Nel manifesto delle Sardine c’è una frase che a prima vista sembra una sciocchezza antidemocratica (e infatti è stata subito sottolineata dai politici di destra a cui è rivolta): «Avete il diritto di parola, ma non avete il diritto di avere qualcuno che vi stia ad ascoltare». Ovviamente, chiunque ha diritto di essere ascoltato, fin che vige la libertà d’espressione. Come sempre, le frasi devono essere lette “in situazione”: quel manifesto nasce dall’insofferenza, è una specie di “adesso basta!” sulla bocca di giovani “storditi e stupiti” dall’esondazione massmediatica salviniana e dal silenzio di una sinistra incapace di reagire alla propaganda provocatoria del “liberiamo l’Emilia” – in un’Emilia vissuta nel culto della Liberazione, ben amministrata da settant’anni (a parte qualche calcificazione sottogovernativa). Nel concreto, credo che la frase equivalga a “non avete il diritto di occupare tutto lo spazio comunicativo e di costringere chiunque ad ascoltarvi”. La questione si sposta dunque sul piano della comunicazione, dei suoi spazi e dei suoi modi: le Sardine rivendicano di voler cambiare il tipo di narrazione, di non voler parlare alla pancia né procedere per insulti; rimproverano ai sovranisti di avere «ridicolizzato argomenti serissimi, buttando tutto in caciara». Insomma, dichiarano di volersi sottrarre alla semplificazione dei discorsi, e aspirano a coniugare l’efficacia mediatica con la complessità dialettica.
Per ottenere questo risultato le Sardine dovrebbero davvero nuotare controcorrente. Per cause molteplici, che qui sarebbe lungo indagare, la semplificazione è la musa del nostro tempo: l’eccessiva complicazione della realtà contemporanea ha suscitato forme di rigetto, si danno risposte elementari (e irritate) a domande finora impreviste e quindi moleste (“perché una famiglia deve essere composta da una mamma e da un papà?”, “perché mangiate ancora carne?”). I contenuti che passano nel digitale sono brevi, “granulari”, il frammento ha ormai sostituito l’intero; la tecnologia ci ha abituati all’usa-e-getta anche nelle idee, twitter pare fatto apposta per tagliare le argomentazioni con l’accetta; la brevità senza sfumature porta alla polarizzazione delle tesi, al diverbio e alla sfida. Gli algoritmi che stanno alla base dei social, e alla Rete in generale, riconoscono quel che ci piace e se ne fanno eco, rinviandoci ad altri contenuti che rafforzano le nostre convinzioni; la comunicazione globalizzata, che doveva unirci tutti, in realtà ci invita a schierarci in fazioni contrapposte. Si fa un gran parlare di “popolo” (o di “gente”, o di “pubblico”) e si è quasi dimenticato un termine che era centrale nelle riflessioni sociologiche dagli anni Venti ai Sessanta del secolo scorso, il termine “massa”. Se già nel 1930 Ortega y Gasset scriveva che «la massa ritiene di avere il diritto di imporre e dar vigore di legge ai propri luoghi comuni da caffè», che si dovrebbe dire oggi della massa digitalizzata, che si ritiene informatissima e sentenzia su estetica e medicina e politica, che ha scambiato l’identità con l’imitazione di un modello e si fa forte delle mille luci dello spettacolo?
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La massa affluente e soddisfatta di vent’anni fa è diventata una massa infelice e rancorosa, che non sa staccarsi dall’imprinting del trascorso benessere e trova nella visibilità spettacolare un surrogato delle speranze economiche perdute; e lo spettacolo è sempre di più esibizione e shock, eccesso velocità e polemica. Essere o non essere di moda, avere o non avere i riflettori puntati addosso; il valore di uno spettacolo ormai si giudica dal numero di persone che “cattura”. La principale categoria di giudizio è “mi prende” o “non mi prende” – come non pensare alle riflessioni di Canetti nel 1960 sulla massa sedotta dalla «voluttà del numero che cresce», dal tema dell’afferrare e del non essere afferrati, e affascinata dai vandalismi di piazza perché «lo scroscio è l’applauso delle cose»? Sempre Canetti notava la tendenza della massa a essere “doppia”, cioè a esistere in quanto contrapposta a un’altra massa analoga e contraria. Le Sardine si proclamano fermamente contro ogni violenza, come fanno dall’altra parte i Pinguini o i Gattini salviniani; entrambi gli schieramenti però si ingarellano sul numero (“saremo uno più di voi”); la muta (o quasi) presenza reale in piazza, contrapposta alla virtualità, non può essere che una premessa; le Sardine si convocano sul web vantandosi di essere “turbo”, e il benedetto sfogo di un’Emilia che si ribella al sovranismo autoritario rischia di diventare uno dei concorrenti in un duello social.
Esistono, è difficile negarlo, una demagogia di destra e una di sinistra. Quella di destra incarta il proprio conservatorismo in un involucro di “buonsenso” e di “sana natura” (la semplicità popolare, la famiglia come la vuole la Madonna, la Patria consacrata dagli eroi); quella di sinistra addobba il progressismo coi panni della “cultura superiore” o “universalmente umana” (l’idealizzazione del diverso, la mistica della vittima, l’élitarismo di massa). Due retoriche contrapposte, che come tutte le retoriche dicono solo mezza verità; la destra dimentica che il suo richiamo alla Natura è semplicemente il ricorso a “ciò che da noi si è sempre fatto” e quindi è un dato culturale, variabile nello spazio come nel tempo – la sinistra dimentica che nulla è più umano dell’odio, e che aver letto più libri, o abitare in centro anziché in periferia, non garantisce alcuna superiorità morale. Certo la demagogia di destra ha ora, a gonfiarle le vele, la paura dell’ignoto e del futuro che caratterizza l’Occidente, e può entrare in sinergia con una politica attiva; quella di sinistra ha la vita più complicata, perché il futuro lo ha già incamerato nella propria ottimistica mitologia e non può attualmente appoggiarsi a nessuna politica che sia in grado di prospettare un futuro diverso.
Se non vogliono ridurre la loro narrazione a un muro contro muro, le Sardine devono compiere lo sforzo immane di uscire dalla fase di contrapposizione numerica per attraversare le verità che credono acquisite. Nell’ultima parte del loro manifesto invitano i sovranisti ad andarli a trovare “in mare aperto” e poi ricordano, con le parole del concittadino Dalla, “com’è profondo il mare”. Eh sì, il mare aperto è profondo: forse non basta presentarsi come “persone normali” che amano “le cose divertenti, la bellezza, la creatività, l’ascolto”; se nell’ascolto è compreso l’ascoltare se stessi, può accadere di scoprire, nelle proprie profondità, alcune delle ragioni che si odiano nell’avversario – anche se l’avversario, cinico e rozzo, dovesse additare queste ammissioni come debolezze. Ma solo così si cresce pensando, altrimenti si resta ragazzi ben educati. Forza Sardine, azzardatevi in profondità.
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