Irriducibili di Hamas
Guerra cognitiva, la campagna d’Italia dopo la pace a Gaza: così la resistenza diventa mentale
A conflitto armato spento, si amplifica quello ibrido tra social, influencer, tv. La sinistra sembra restia ad accettare la realtà tra gabbie cognitive e trappole mentali
In Medio Oriente si festeggia la pace, con brindisi e cori in piazza che uniscono Gaza e Gerusalemme, Kan Younis e Tel Aviv in un unico abbraccio. Nello stesso tempo, come in uno specchio antico, che restituisce un’immagine opaca, in Italia politica e media si radicalizzano: spiegano che loro no, non festeggiano. E che proseguiranno, noncuranti della realtà e delle novità intervenute, nella protesta dura contro Israele, Trump e chiunque partecipi al rispetto del cessate il fuoco.
Quasi fingendo di poter rimanere impermeabili alle notizie che arrivano, si chiudono a riccio: non ci vogliono stare, al dialogo per la pace. Non lo accettano perché in parte non possono accettarlo, vedendo cadere tutto l’impianto strategico delle manifestazioni già in programma, e in parte perché, intrisi di propaganda di Hamas, non riescono a entrare nelle corde della distensione. Come gli ultimi giapponesi. Come quella ridotta della Valtellina che, liberata l’Italia dal fascismo, proseguiva da sola, asserragliati in montagna, la sua guerra contro un mondo che stava cambiando loro malgrado. Eccoli, gli effetti della guerra cognitiva, applicati alla realtà. Non è solo un ritardo percettivo, è la dimostrazione che le gabbie mentali e culturali impediscono di vedere chiara la trasformazione del quadro, mai così dinamico come nel nostro tempo.
Non per caso il capo della sinistra israeliana, Yair Lapid, nel suo magistrale intervento alla Knesset ha parlato con grande disappunto della sinistra italiana, che infuoca le piazze senza aver capito il momento. Non a caso lunedì sera, alla notizia dell’accordo tra Hamas e governo Netanyahu, a Milano ci sono stati incidenti di piazza. In rete da ieri circola un meme: “Sabato a Gaza manifestazioni contro gli scontri in Italia”. Cosa succede? Il cuore operativo della guerra cognitiva risiede nella psicologia. Ogni individuo filtra la realtà attraverso pregiudizi, scorciatoie mentali e automatismi emotivi. I bias cognitivi, studiati da Daniel Kahneman e Amos Tversky, rendono prevedibile l’errore umano e dunque manipolabile il comportamento collettivo. Tra i bias più sfruttati spiccano: il bias di conferma (tendenza a cercare e ricordare informazioni che convalidano le convinzioni pregresse), l’effetto di verità illusoria (la ripetizione aumenta la credibilità), l’euristica della disponibilità (stimoli recenti o vividi pesano più del dato statistico), l’ancoraggio (la prima cifra o cornice proposta condiziona la stima), il framing (la stessa informazione, presentata con cornici emotive diverse, produce scelte divergenti), l’euristica affettiva (se qualcosa “ci piace” o “ci disgusta”, la giudichiamo rispettivamente più sicura o più pericolosa). Sul piano decisionale, la teoria dei “due sistemi” (processi rapidi, automatici e associativi vs. processi lenti, riflessivi e deliberativi) spiega perché le campagne ostili puntino a mantenere il pubblico nel sistema rapido: meno controllo cognitivo, più reattività emotiva.
Il principio è semplice: chi controlla le emozioni controlla la cognizione. Le moderne campagne di influenza – dal microtargeting politico alle operazioni di disinformazione – utilizzano l’intelligenza artificiale per individuare i punti deboli emotivi dei soggetti e amplificarli. Oggi modelli predittivi inferiscono tratti psicometrici (es. apertura, gradevolezza, nevroticismo) da impronte digitali comportamentali (like, pattern di condivisione, tempo di permanenza), costruendo messaggi “su misura” capaci di massimizzare paura, sdegno o senso di appartenenza. Algoritmi di bandit e A/B testing iterano in tempo reale: testano varianti di frame, immagini, suoni e micro-narrazioni e convergono su quelle con tasso di conversione emotiva più alto (click, condivisioni, donazioni, mobilitazione). L’IA generativa consente inoltre “personas sintetiche” e contenuti iper-plausibili a costo marginale prossimo allo zero, saturando lo spazio attentivo e alzando il rumore di fondo che rende più difficile la verifica.
La neuroscienza applicata alla guerra, o neurostrategia, ha dimostrato che l’uomo reagisce a stimoli simbolici prima ancora di elaborarli razionalmente. L’immagine di un soldato, un bambino, una bandiera o un corpo ferito produce un effetto immediato, che precede la comprensione logica del messaggio. È la “cattura attentiva” di stimoli ad alto arousal (minaccia, disgusto, purezza violata, identità in pericolo) a innescare risposte rapide — potenziando amigdala e circuiti dello stress — e a ridurre il tempo/energia disponibili per il controllo inibitorio. Meccanismi come priming e salienza visiva fanno sì che simboli e segnali (uniformi, colori nazionali, iconografie sacre, volti sofferenti) funzionino da “ancore percettive” che orientano interpretazione e memoria. In pratica: prima sentiamo, poi giustifichiamo; e chi orchestra campagne sa che la sequenza emozione-giudizio è più efficace della sequenza dato- ragionamento.
Perché proprio l’Italia si mostra in prima fila nel battlefield (non senza vittime) della guerra cognitiva? Perché somma centralità simbolica e fragilità strutturali, diventando insieme bersaglio e moltiplicatore di influenza. L’Italia concentra vulnerabilità e centralità che la espongono come piatto forte nella guerra cognitiva all’Occidente. Per peso economico, posizione, capitale culturale e densità mediatica è uno Stato-influencer: ciò che nasce in giornali, università, industria culturale e piattaforme si riverbera nello spazio euro-atlantico. L’obiettivo degli attori ostili non è solo condizionare decisioni puntuali, ma conquistare il dominio cognitivo: plasmare cornici di senso, costi politici e opinione su difesa, sanzioni, migrazioni, infrastrutture, posizionamento internazionale.
Sul piano storico-culturale, Giovanni Sartori, con Homo videns, ha mostrato come l’egemonia dell’immagine comprima il pensiero astratto; nel digitale gli algoritmi massimizzano il coinvolgimento, non l’accuratezza. Ernesto Galli della Loggia ha evidenziato la fragilità della coscienza storica condivisa ma anche il rapporto intermittente tra cittadini e Stato: appartenenze calde convivono con istituzioni fredde, riducendo ancore cognitive comuni e riattivando clivage come Nord/Sud ed élite/popolo. Il ciclo di personalizzazione e disintermediazione analizzato da Giovanni Orsina ha indebolito i corpi intermedi: nel fai-da-te informativo, contenuti nativi digitali, dialetti locali e micro-influencer consentono lavaggi narrativi cross-piattaforma che sedimentano come dubbio plausibile senza passare dai gate della verifica. La centralità del leader, letta da Alessandro Campi come dinamica plebiscitaria, rende il sistema sensibile a micro-attacchi reputazionali capaci di produrre scarti decisivi in fasi critiche.
Le tattiche ricorrenti includono whataboutism (spostare l’attenzione con «e gli altri?» per eludere il tema), astroturfing (simulare mobilitazioni “di base” che in realtà sono organizzate da centrali politiche o economiche), brigading (incursioni coordinate di gruppi che invadono commenti, sondaggi, recensioni per alterarne l’esito), manipolazione dei segnali sociali (gonfiare like, condivisioni, rating per creare l’illusione di consenso), reti di bot (account automatizzati che pubblicano e rilanciano contenuti in serie) e sockpuppet (identità multiple false gestite dalla stessa regia per fingere pluralità di voci). L’ecosistema italiano — TV generalista, stampa d’opinione, talk polarizzati, radio locali, TikTok, messaggistica privata — favorisce l’ibridazione dei canali: un frame (cornice interpretativa) può nascere in una content farm (sito che produce in massa pezzi acchiappa-clic), essere trasformato in meme (unità visivo-testuale semplice da ricordare e replicare), approdare in prime time (fascia televisiva di massimo ascolto), rimbalzare su WhatsApp (messaggistica cifrata, gruppi chiusi poco moderati) e riemergere come “opinione diffusa” («si dice che…»). La pandemia ha mostrato la velocità del travaso: comunità a bassa soglia d’ingresso nate su cucina, benessere o calcio sono state “ricablate” verso pseudo-scienza e teorie del complotto, poi riorientate su guerra russo-ucraina e Medio Oriente.
In pratica, chi orchestra l’influenza sfrutta la catena margine-mainstream: fabbrica contenuti a basso costo, li confeziona per piattaforme diverse, ne manipola i segnali di popolarità, li fa sbarcare nei talk e infine li consolida nel passaparola privato. Il risultato non è tanto convincere, quanto saturare: seminare ambiguità, cinismo («sono tutti uguali») e stanchezza cognitiva che disincentiva la verifica e abbassa la soglia di attenzione collettiva.
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