Guerra Israele, ostaggi e tregua: scatta l’accordo (appeso a un filo)

Per il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, l’accordo concluso con Hamas per il rilascio del primo gruppo di ostaggi è stato un passaggio difficile. Parlando ai suoi ministri, Bibi ha espresso tutta la complessità della scelta con una frase trapelata dopo l’incontro con il gabinetto di guerra: “Una decisione difficile ma una decisione giusta”.

Un concetto espresso anche dal presidente Isaac Herzog che sul social X ha parlato dell’accordo definendolo “doloroso e difficile”, ma con l’auspicio che questo possa essere “un primo passo significativo per riportare a casa tutti i rapiti”. La difficoltà nel dare l’ok all’accordo è stata compresa anche nelle drammatiche ore precedenti all’approvazione, quando si è consumato lo strappo tra Netanyahu, gli apparati di difesa e intelligence, e l’ultradestra israeliana. L’ala più radicale del governo ha manifestato la sua contrarietà all’accordo votando contro. Ma il pressing interno ed esterno su Netanyahu ha prevalso, oltre che il desiderio del Paese e dei familiari di riabbracciare le persone sequestrate il 7 ottobre.

L’attesa è tanta, così come molti sono i timori. Lo hanno confermato ieri sera anche le parole del portavoce dell’esercito Daniel Hagari, che parlava di questioni ancora da definire. Sei ospedali israeliani sono pronti a ricevere gli ostaggi. E anche i soldati coinvolti nelle procedure sono stati istruiti su come comportarsi con le persone liberate, specialmente con i bambini. Ieri, proprio per evitare che qualcosa andasse storto, il direttore del Mossad, David Barnea, è tornato a Doha: crocevia delle trattative e sede dei massimi dirigenti di Hamas.

Scopo del blitz è stato quello di limare gli ultimi dettagli. Il patto prevede da parte di Hamas la liberazione di 50 ostaggi israeliani (in larga parte donne e bambini). In cambio, l’organizzazione islamista e il governo di Israele hanno concordato una tregua di quattro giorni, il rilascio di 150 detenuti palestinesi (donne e minorenni), lo stop dei voli dei droni sulla parte settentrionale della Striscia per sei ore per ogni giorno di tregua e l’arrivo di aiuti umanitari. Un’altra postilla – che sembra soprattutto un modo per lasciare aperta la porta a nuovi scambi di questo tipo – è poi l’eventuale liberazione di altri dieci ostaggi per ogni ulteriore giorno di tregua oltre ai quattro prefissati. A questo proposito, è doverosa la massima cautela. La tregua, che dovrebbe scattare alle 10 di questa mattina, si regge, infatti, su un filo sottilissimo.

Ed è chiaro che, se per lo Stato ebraico la guerra non sarà terminata fino alla completa distruzione di Hamas nella Striscia di Gaza e la completa liberazione degli ostaggi, altrettanto pensa l’organizzazione che controlla l’exclave palestinese e le altre fazioni al suo interno, a partire dal Jihad islamico palestinese. Il premier Netanyahu lo ha ribadito più volte. E a testimonianza dell’impegno delle Israel defense forces anche nelle fasi di avvicinamento alla prima tregua, ieri è stato comunicato l’ingresso delle truppe dello Stato ebraico nel quartier generale della “Brigata Gaza Nord” di Hamas.

La roccaforte dell’organizzazione, non lontana dal campo profughi di Jabaliya, è stata conquistata dalla Brigata di fanteria israeliana “Givati”, che ha scoperto all’interno del compound anche diversi accessi alla famigerata rete dei tunnel. Inoltre, sempre le Idf hanno mostrato ieri il video della distruzione del quartier generale dell’intelligence di Hamas a Gaza. Su tutto questo, resta poi alto il rischio delle violazioni di questa tregua, posto che l’ormai indebolita struttura di Hamas, specialmente nel nord della Striscia, potrebbe rendere possibile l’attivazione di frange sempre più indipendenti o di gruppi estranei o addirittura rivali. Un alto funzionario israeliano ha raccontato al Times of Israel che i soldati risponderanno alle violazioni senza che le reazioni possano essere interpretate come la fine della tregua. Perché l’imperativo resta quello di arrivare alla liberazione di tutti gli ostaggi.

Sono fragilità insite in accordi di questo tipo e gli indizi di un conflitto che a oggi non è affatto terminato. Tuttavia, il patto sugli ostaggi rappresenta un possibile fondamentale giro di boa. E non a caso l’ottimismo, anche qui con tutti i paletti imposti dalla realtà sul campo, trapela anche negli Stati Uniti, dove il presidente Joe Biden può inserire questa intesa come una sua vittoria diplomatica nel conflitto mediorientale.

Il capo della Casa Bianca si è detto “straordinariamente grato” del ritorno a casa dei primi ostaggi. E ringraziando per il lavoro svolto dalla sua amministrazione, dall’Egitto, dal Qatar e dal governo di Israele, ha quasi voluto mettere il timbro di Washington non solo sul negoziato, ma anche sulla regione. Per Biden si tratta di un elemento significativo, tanto più dopo l’incontro dei Brics sulla questione di Gaza. E dal momento che l’altra priorità di Washington è evitare l’allargamento del conflitto, non va sottovalutata nemmeno l’adesione di Hezbollah alla tregua di quattro giorni sancita tra Hamas e Israele. Il movimento sciita non era coinvolto nelle trattative sugli ostaggi.

Tuttavia, anche a causa della guerra latente che si combatte nel sud del Paese dei cedri tra fazioni islamiste e forze israeliane, il segnale assume un connotato rilevante. Washington ha più volte chiesto sia a Israele che a Hezbollah (e quindi indirettamente all’Iran) di evitare a ogni costo l’allargamento del conflitto. Il fatto che Nasrallah abbia mostrato una certa predisposizione al raggiungimento di un’intesa è un indicatore importante, soprattutto perché non si placano le tensioni nella regione con altre forze legate a Teheran. Ieri un caccia israeliano ha abbattuto un missile sul Mar Rosso diretto contro Eliat, e che si ritiene sia stato lanciato dagli Houthi dello Yemen. Mentre il Pentagono ha confermato di avere effettuato un raid in Iraq dopo un nuovo attacco delle milizie sciite contro la base internazionale di Al Asad