Hong Kong brucia, ma la Cina ha l’impunità e l’Occidente è impotente

“Hong Kong brûle-t-il?”, si potrebbe ripetere facendo il verso al film Parigi brucia? di René Clément che rievocava le ore in cui Hitler ordinò di dar fuoco a Parigi prima dell’arrivo degli Alleati, ordine per fortuna ignorato. Ieri sera gli alleati del gruppo cosiddetto “Five Eyes”, ovvero delle cinque potenze di lingua inglese – Regno Unito, Stati Uniti, Canada, Australia e Nuova Zelanda – hanno inviato una nota congiunta a Bejing in cui confermano quanto aveva anticipato il segretario di Stato americano Mike Pompeo: l’aggressione cinese sul territorio di Hong Kong è considerata dai cinque grandi Paesi di lingua inglese come una grave violazione del trattato cino-britannico firmato nel 1984 e che l’occupazione della città- Stato avrà conseguenze molto gravi se la Cina non fa marcia indietro.

Non certo conseguenze militari, ma il Regno Unito e gli Stati Uniti hanno deciso di rifornire di passaporti e legittima cittadinanza britannica o americana molte centinaia di migliaia di persone di Hong Kong che potranno dunque viaggiare e andare nel Regno Unito e negli Stati Uniti per studiare o per restare il tempo che desiderano e poi tornare a Hong Kong nelle condizioni diplomatiche previste e con le garanzie anch’esse previste dai patti firmati nel 1984 e che oggi la Cina è accusata di calpestare. Hong Kong non è Parigi, Bejing non è Berlino, e non si vedono fiamme, né cataste di morti – non ancora per lo meno – ma quel che sta accadendo alla popolazione giovane e internazionalista di Hong Kong strazia il cuore e di fatto nessuno ne parla. Mike Pompeo, segretario di Stato americano, ha detto che gli Stati Uniti prendono atto della rottura cinese del patto che garantiva lo status dell’ex colonia britannica, e minaccia sanzioni. Ma nulla di più.

Dopo mesi e mesi di resistenza, un popolo armato soltanto di ombrelli variopinti e suppellettili stradali, ha resistito fino a giovedì quando sono entrate le truppe speciali in robotiche tenute antisommossa incaricate di incenerire l’autonomia e la libertà residua della città, mettendo fine a uno dei più arditi e delicati esperimenti di convivenza fra un regime totalitario e una piccola New York su un’isoletta. Adesso, Bejing pensa di chiudere i conti anche con Taiwan, formalmente parte integrante della Repubblica Cinese, ma di fatto isola indipendente con stile di vita occidentale e democratico. Con una votazione plebiscitaria di un Parlamento in cui esiste solo il Partito comunista cinese, il presidente Xi ha dichiarato reato perseguibile con la deportazione qualsiasi “atteggiamento irrispettoso” o “manifestamente ostile” di chiunque e in qualsiasi modo nei confronti delle autorità cinesi, a cominciare dall’inno nazionale cinese.

Mi innamorai di questa unica città-Stato il primo luglio del 1997 quando andai, per la Stampa, ad assistere al cambio della guardia: fine della colonia inglese, e inizio dell’occupazione cinese. Con un popolo bilingue abituato a tutte le libertà. Ricordo i ragazzi di Hong Kong che si rifiutavano di giocare a calcio con le squadre cinesi, così orgogliosi di essere liberi ma con uno statuto speciale, una moneta separata, una borsa in competizione con quella di Shanghai. Da tempo la Cina aveva riversato nella colonia britannica decine di migliaia di poliziotti, spie, funzionari e burocrati con l’incarico di mettere sotto sorveglianza una comunità ostile, “da rieducare”. Oggi la Cina fa largo uso dei campi di rieducazione.

La rioccupazione di Hong Kong che abbiamo visto nei giorni scorsi mostra l’impiego di truppe attrezzate per annichilire la resistenza senza far uso (a causa della televisione) di armi letali: dunque grandi attrezzature di cannoni ad acqua (cui i ragazzi della città sono abituati dai duri mesi dell’inverno) e i fucili che sparano pallottole urticanti e infette difficili da cicatrizzare. L’altra arma è il bastone foderato di gomma con cui gli agenti cinesi nella metropolitana bastonano gli attivisti dopo averli pedinati ad uno ad uno. All’origine del conflitto sta un accordo vecchio ormai di trentasei anni fa tra la lady di ferro Margareth Thatcher con il presidente cinese Zhao Ziyang, in un’epoca in cui la Cina stava riprendendosi dal duro regime maoista e si era aperta all’Occidente. Aveva cominciato il presidente repubblicano Richard Nixon, quello che fu costretto a dimettersi per lo scandalo Watergate, il quale si dimostrò un grande realista: chiuse la disgraziata guerra nel Vietnam iniziata nel 1962 dal presidente John Kennedy e inaugurò con la Cina la “politica del Ping Pong”, mandando cioè una squadra di campioni di tennis da tavolo a competere con i cinesi.

La Cina aveva fame di mercato occidentale ed era in continua frizione con l’Unione Sovietica lungo il confine del fiume Ussuri lungo le cui rive scoppiavano scontri di frontiera. Tutto il mondo aveva temuto una guerra all’ultimo sangue che poi fu evitata. Cina e Urss avevano collaborato fra loro rendendo fortissimo l’esercito nordvietnamita che aveva sconfitto il corpo di spedizione americano, ma la Cina era decisa ad assumere un ruolo predominante da potenza regionale. Quando l’Unione sovietica collassò, la Cina provò un brivido libertario che fu sanguinosamente scoraggiato, anzi ucciso, quando i carri aprirono il fuoco sugli studenti di piazza Tienanmen a Bejing nel 1989, in una situazione vagamente simile a quella di Hong Kong. Il partito comunista aveva scelto la via della modernizzazione ma senza democratizzazione. Oggi in Cina, e presto ad Hong Kong, Internet è sotto censura, Google può essere utilizzata in modo limitato sotto il controllo del governo che provvede strumenti on line propri, con divieto di accedere ai social occidentali, se non nelle forme previste.


Nello stesso modo, il partito comunista cinese decise di ammettere le imprese private e il proliferare di imprenditori ricchi e spesso miliardari, a condizione di mantenere il controllo economico e direttivo su tutte le industrie e le imprese. Il costo miserabile della mano d’opera cinese diventò la fonte di attrazione per migliaia di imprese occidentali che trovarono molto più conveniente dislocarsi in Cina pagando salari cinesi a operai che in Italia sarebbero costati il triplo. Ben presto l’Occidente, sempre caratterizzato dalla sua pigrizia nel laissez-faire e seguire il denaro, cominciò a trovare più conveniente comprare in Cina i componenti essenziali dei farmaci e dei prodotti elettronici separati.
Tutto ciò ha creato delle condizioni tali per cui si può essere relativamente sicuri del fatto che per quanto possano peggiorare e arroventarsi le relazioni formali tra Usa e Cina, una guerra è impensabile perché l’economia cinese ha bisogno assoluto dell’economia e del mercato occidentale, il quale dipende da quello cinese e lo abbiamo sperimentato in questi tempi di Covid19, quando i cinesi si sono rivelati non soltanto coloro che avevano taciuto per molte settimane, forse mesi, la nascita dell’epidemia, ma che avevano astutamente messo sotto sforzo le loro aziende che producono respiratori ospedalieri, mascherine e materiale sanitario, da rivendere a prezzi di monopolio, ma con un grande show di generosità.

L’epidemia dimostra che nessuno può pensare di attaccare la Cina, al massimo può infliggerle nuove sanzioni, ma non esiste alcun deterrente che possa scoraggiare Bejing dal fare quel che ha fatto nei giorni scorsi: rompere il trattato che prevedeva cinquanta anni di regime speciale – un popolo, due sistemi – e che oggi Xi Jinping ha deciso di calpestare. Era tempo che la Cina cercava di levarsi questa spina nel fianco che è la cittadella bellissima e culturalmente avanzata di Hong Kong, residuo della presenza e potenza occidentale. Intendiamoci: come ha riconosciuto spiritosamente Boris Johnson in una intervista a proposito della democrazia nella ex colonia: “Non ricordo che noi inglesi abbiamo mai instaurato una democrazia ad Hong Kong”. Infatti, la città-spina nel fianco era una democrazia basata sui social più che sulle rappresentanze, un aggregato di lingua cinese e inglese capace di resistere fino al momento dello showdown. Le carte in tavola sono cadute adesso, quando Est ed Ovest, principalmente Stati Uniti e Regno Unito da una parte e RPC dall’altra hanno potuto misurare con gli strumenti diventati indispensabili per la pandemia, che la Cina usufruisce del diritto di impunità.

La si può strapazzare (con garbo) minacciare di sanzioni, ma poco più perché la Cina è il mercato americano il quale a sua volta è la Cina e nessuno Stato occidentale vivrebbe un’ora sola senza pezzi di ricambio e componentistica cinese. Naturalmente i maggiori Paese ne hanno tratto una lezione buona per il futuro: bisogna riportare a casa le proprie industrie indispensabili, farmaci e componentistica e tornare ad essere indipendenti dalla Cina che però ci serve come il pane.

Tutto ciò considerato e ragionato, il Comitato centrale del partito comunista cinese e poi il Parlamento di quel Paese hanno varato l’unica decisione crudele, anzi terrorizzante, ma realista: voi occidentali non andaste a morire per Danzica nel 1938 d certamente non andrete a morire per Hong Kong nel 2020. Poi, mossa successiva, toccherà a Taiwan. Oggi la Cina, a rigor di geografia e diplomazia, la rivendica benché i taiwanesi siano pronti, dicono, a combattere fino alla morte. Ma anche la loro sorte è segnata e noi europei guarderemo la notizia della loro fine politica sui telegiornali distrattamente, ignorando del resto una storia vecchia di settanta anni che nessuno ricorda più.