Francesco ha 65 anni e da otto è detenuto in 41 bis. Pochi colloqui con i familiari ormai in ginocchio per le spese legali e i viaggi per raggiungerlo. Ha sempre contestato il decreto con cui veniva ogni volta rinnovato il “carcere duro”, espressione orrida quanto eufemistica. Il 41 bis è il più stridente punto di rottura dei principi costituzionali e convenzionali che governano e delineano il senso della pena. Si contrappone con forza ad ogni aspetto del vivere umano: affettività, territorialità, segretezza della corrispondenza, diritto allo studio ed alla libera informazione, diritto al lavoro, alla socialità. Perfino il diritto alla parola. È sospeso, a norma di legge, il trattamento intramurario ordinario e quello residuo, di rieducativo, ha ben poco.
Le ore di Francesco scorrono nel silenzio e nella lentezza del niente di quella carcerazione che non ha attività alternative alla cella. E ogni volta che impugna il nuovo decreto si illude che sarà quella buona, che finalmente i giudici vedranno che non ha contatti con nessuno, che non ha denaro, che pensa soltanto ai suoi cari. Ormai da otto anni vive nel buio di una condizione soltanto punitiva che non aspira al recupero, spegne e basta. I giudici lo capiranno. Così, ancora una volta Francesco è davanti al tribunale di sorveglianza e spera. In udienza, però, si sente contestare dalla procura antimafia che alcuni collaboratori avrebbero parlato di un suo interessamento su fatti estorsivi e, inoltre, che da captazioni ambientali sarebbe emerso che, in una data determinata, durante un colloquio in carcere con la moglie, le avrebbe affidato messaggi di mafia.
Le richieste della difesa di acquisire le dichiarazioni dei collaboratori e le trascrizioni delle conversazioni vengono tutte respinte. Non saranno utilizzate, rassicura il collegio. Francesco le troverà, però, nel suo provvedimento di rigetto, un altro, a formare la sua storia di detenuto, una storia scritta da altri e incisa sulla sua pelle alla quale non sa come cambiare il finale perché non gli sono offerti strumenti per farlo. Eppure, un colloquio con la moglie Francesco in quel giorno non lo aveva proprio avuto ma sembra non importare a nessuno. A giudicare Francesco, a decidere delle sue sorti, non c’è il suo giudice naturale, il tribunale di sorveglianza del luogo della sua detenzione, tenuto a conoscerlo. Dal 2009 decide il tribunale di sorveglianza di Roma, per tutti i ristretti in 41 bis, in qualunque carcere si trovino, per una norma il cui scopo dichiarato era quello di determinare l’uniformità giurisprudenziale in materia di reclami.
Da allora le persone sottoposte al regime differenziato vedono ineluttabilmente rinnovare la loro condizione e patiscono diuturnamente un isolamento di opportunità e di relazioni senza via di uscita. Nel vagliare le impugnazioni, il tribunale si limita ad avallare la presunzione di pericolosità formulata nel decreto ministeriale che applica o proroga la misura in ragione della gravità del reato in esecuzione, anche quando risalente a oltre un ventennio prima, delle dichiarazioni di collaboratori, anche quando in programma di protezione da un quarto di secolo, dei rapporti avuti con mafiosi di spicco, anche se defunti da un decennio.
Pochi giorni prima dell’udienza, vengono depositate agli atti del fascicolo le “note DAP”, un carteggio che racchiude i pareri di alcuni organi interpellati sulla necessità che il reclamante rimanga in regime derogatorio. Spesso vengono allegati dei CD contenenti sentenze e ordinanze custodiali (migliaia di pagine) relative ad altre persone nei luoghi in cui l’interessato aveva commesso il reato, in virtù di una suggestione di cointeressenza radicata solo sul dato territoriale. Il contenuto di tali supporti, però, rimane oscuro per la difesa cui non è destinata una postazione computer per visionarli e valutarne pertinenza e utilità a meno che non decida di affrontare le spese onerosissime di copia (circa 350 euro a CD). Le note sono intrise di affermazioni vaghissime e suggestive: «collaboratori di giustizia di recente hanno affermato che dai regimi ordinari i detenuti continuano a veicolare all’esterno i loro messaggi»; «non risulta che Tizio abbia collaborato con la giustizia»; «non si esclude che ove allocato in un circuito comune possa riprendere i contatti con la criminalità». Si tratta di illazioni la cui vacuità dovrebbe essere apprezzata dal tribunale di sorveglianza per costatare il venir meno dei presupposti legittimanti del decreto ministeriale. Ma ciò non accade. Francesco è ancora in 41 bis.
