Il fallimento della magistratura: dai fuoriclasse Falcone e Borsellino all’uno vale uno

In questi tempi travagliati per la magistratura italiana non si è mancato di puntare il dito contro la gerarchia che sarebbe stata imposta alle procure della Repubblica dalla riforma del 2006. Un provvedimento scellerato si dice, giacché il governo del tempo ha voluto assegnare un ruolo quasi egemone al procuratore capo all’interno del proprio ufficio, proclamandolo dominus dell’azione penale e responsabile di tutte le attività inquirenti. Questo potere senza eguali avrebbe innescato le ambizioni e le deviazioni che hanno macchiato la reputazione della magistratura. È vero che, teoricamente, non vi è porzione dell’attività dei pubblici ministeri che sia sottratta al controllo del procuratore e non vi sarebbe, sempre in teoria, spazio per protagonismi e antagonismi di sorta. Sulla carta si è approntato un motore immobile chiamato a reggere le fila delle indagini e a governare le sorti dei tanti cittadini che ogni anno passano al crivello delle procure.

Non è andata così e lo sanno tutti. Se poteri sono stati dati, questi poco hanno avuto a che fare con la giurisdizione inquirente e molto con opacità e contaminazioni di altro genere. Il sistema esigeva capi degli uffici di altissima professionalità, abili investigatori, prudenti comunicatori, efficienti organizzatori, misurati team manager. Merce rara, purtroppo, e da non pochi anni tra le toghe. Chi ha scritto quel testo del 2006 aveva un’immagine tutto sommato romantica dei pubblici ministeri italiani; da non cedere ma ne aveva un rispetto profondo e li immaginava tutti bravi, preparati, capaci. Non è andata così, dicevamo. Ma è troppo facile dare la colpa al correntismo, al carrierismo, alle spartizioni di potere. A parlarsi chiaro, non è che oggi tra le toghe si fronteggino, da una parte, impareggiabili Sherlock Holmes presi a ceffoni dal Csm e, dall’altra, goffi ispettori Clouseau che mascherano la propria inettitudine.

Auream quisquis mediocritatem diligit, proclama Orazio, ed è questo purtroppo che è diventato il terreno di pascolo per molte carriere. In tanti prediligono quella tranquilla terra di mezzo in cui si corrono pochi rischi, si fanno indagini sulle frange marginali, non si creano inimicizie con i colleghi, si intrattengono amichevoli relazioni con la stampa, si inciucia con i vertici locali delle forze di polizia, si cooptano fedeli da portare con sé. Insomma si vivacchia in attesa di un’altra sede e di un altro posto da occupare. Attenzione: è una peste che ammorba molte pubbliche amministrazioni e non solo. Ma che nell’universo delle toghe fa’ a pugni con la pretesa, un po’ supponente e un po’ ipocrita, di voler far credere che ogni volta che si metta mano alla nomina un procuratore capo si stia scegliendo tra un novello Giovanni Falcone e un Paolo Borsellino in erba o tra Marcello Maddalena e Agostino Cordova o tra Pierluigi Vigna e Francesco Saverio Borrelli.

Purtroppo, la magistratura italiana ha in larga parte esaurito la propria vena aurea e non ha più la fortuna di disporre di simili fuoriclasse; la scelta, qualche volta, oscilla tra oscuri burocrati di estrazione clientelare e spavaldi pubblici ministeri ringalluzziti da una stampa amica e a cui tutto sembra dovuto. Non è così. Ovvio. Non è sempre così. L’evolversi dei tempi impone anche professionalità diverse. Però a occhio e croce Palamara & bros non è che avessero poi tanto da scegliere. Il reprobo lo ha detto più volte che, salvo qualche isolato caso, il resto era una spartizione inter pares; pochi assi a disposizione e tante seconde e terze file tra cui pescare. Come, in fondo, è capitato alla politica dopo il crollo della Prima Repubblica. E non è un caso che uno degli slogan politici di maggior successo degli ultimi anni sia stato proprio che «uno vale uno». Il correntismo delle toghe lo aveva capito da tempo che le cose stavano così e non stava a stracciarsi le vesti, convinta che questa postura orizzontale della magistratura avrebbe reso tutti clientes fedeli. D’altra parte, un criterio vale l’altro, se tutte le vacche sono grigie. Il discorso potrebbe proseguire e a lungo.

Ma al momento si deve segnalare l’ulteriore rafforzamento che questa visione tolemaica del capo dell’ufficio riceverà per effetto del decreto legislativo destinato a recepire la Direttiva europea sulla presunzione di innocenza. Non sarà un caso che tra le tante cose che si sarebbero potute fare – soprattutto sul versante della custodia cautelare in carcere – l’attenzione si sia concentrata sulle conferenze stampa e sul potere di disporle da parte del solo procuratore della Repubblica. Pochi hanno ritenuto di dover ricordare un articolo di quel provvedimento del 2006 che rendeva piramidali le procure e che proprio ai «rapporti con gli organi di informazione» era dedicato. Senza essere didascalici, ma lo si vuole o no rammentare che in Italia è vigente da 15 anni una norma secondo cui «il procuratore della Repubblica mantiene personalmente… i rapporti con gli organi di informazione» oppure che «ogni informazione… deve essere fornita attribuendola in modo impersonale all’ufficio ed escludendo ogni riferimento ai magistrati assegnatari del procedimento»; che finanche «è fatto divieto ai magistrati della procura della Repubblica di rilasciare dichiarazioni o fornire notizie agli organi di informazione circa l’attività giudiziaria dell’ufficio».

Tutto chiaro. Tutto inutile ovviamente, posto che nessun procuratore capo ha mai visto ostacolata la propria carriera da fughe di notizie e dichiarazioni (anzi) e considerato che negli uffici c’è da sempre chi sgomita per avere rapporti privilegiati con la stampa. Insomma, tutto uno scempio che ben si conosce e cui ora si dovrebbe porre rimedio con l’idea di un provvedimento “motivato” per poter procedere a una conferenza stampa. Pochino, pochino. Anzi persino pericoloso, perché porre un argine alle conferenze stampa – che comunque offrono a ciascuna testata e a ciascun giornalista l’opportunità di avere una notizia – metterà ancor di più all’opera i noti circuiti paralleli che avvantaggiano la carta stampata embedded, ossia arruolata al servizio delle toghe. Eppure, pare di ricordarlo, che Palamara ne avesse parlato a proposito del Sistema.