L’affermazione del professor Ainis (La Repubblica, 12 marzo) secondo cui la degenerazione correntizia della magistratura, al pari di quella che affligge i partiti, «non è figlia della Costituzione» appare così importante, nella discussione in corso in questi tempi così travagliati, da suggerire qualche ulteriore riflessione (v. Il Riformista 16 marzo). Se la tesi fosse corretta se ne dovrebbe ricavare la convinzione, che l’autorevole commentatore ha esplicitato, per cui basterebbe qualche aggiustamento alla legge elettorale che regola la composizione della parte togata del Csm (i 2/3 del tutto) per porre rimedio ai tanti mali della corporazione che, a occhio e croce, sono sopravvissuti ad almeno tre decenni di leggi, profluvi di circolari e, persino, modifiche costituzionali (l’articolo 111) volte a tentare un riequilibrio dei rapporti di forza processuali e ordinamentali dentro e fuori della magistratura.

Discorso complesso ovviamente e che purtroppo impone un certo schematismo e qualche inevitabile approssimazione.
Che la Costituzione del 1948, secondo la retorica rinfocolata dal referendum costituzionale del 2016, sia la «più bella del mondo» è in verità largamente opinabile. A occhio e croce: 67 Governi in circa 70 anni, gli ultimi 3 in meno di 3 anni; un presidente della Repubblica che, ben oltre le funzioni previste, ha dovuto in almeno 3 occasioni (Ciampi, Monti, Draghi), costruire una maggioranza parlamentare e indicare il premier da votare con il relativo programma di governo; una Corte costituzionale che, ben oltre le funzioni previste, ha espanso il proprio intervento sino a imporre al Parlamento tempi e modi della legislazione e a esautorarlo su questioni cruciali per la società (eutanasia, fecondazione assistita, carceri e molto altro); una società malata di una denatalità cronica, malgrado la famiglia sia stata innalzata a «società naturale» che lo Stato «riconosce»; una «eguaglianza morale e giuridica dei coniugi» strangolata senza rimedi da una legislazione che penalizza il lavoro femminile e lo priva di assistenza pubblica; una scuola «aperta a tutti» e in cui ai «capaci e meritevoli» è riconosciuto «il diritto di accedere ai gradi più alti degli studi», sbeffeggiata dalla fuga all’estero dei migliori alla ricerca di opportunità di studio e di lavoro; l’autonomia universitaria tante volte trasformata in escamotage per assunzioni familistiche e per la moltiplicazione di cattedre in cui allocare congregati e affiliati; un sistema tributario, giustamente, «informato a criteri di progressività» che tuttavia – proprio a causa di questo suo connotato ideale – è divenuto la ragione prima dell’evasione e dell’elusione fiscale dei redditi più alti inevitabilmente inclini alla flat tax; un assetto regionalista che ha trasformato l’Italia in un caleidoscopio di inefficienze e sprechi; una pubblica amministrazione esautorata da commissari e generali persino per svolgere la più elementare delle funzioni in tempi di pandemia; un parlamento surrogato dai Dpcm per mancanza di una minima regola costituzionale sui poteri d’emergenza.

E si potrebbe proseguire a lungo, quasi articolo per articolo, per dimostrare che la Costituzione più bella del mondo ha finito per agevolare lo sviluppo di un modello di società consociativa, ipergarantita, corporativa, insofferente allo Stato, vocazionalmente anomica, esosa per le finanze pubbliche, riottosa ai propri doveri, rancorosa per i diritti negati. Sarà stata anche bella la Carta, ma appare oggi un compendio di troppe inefficienze che proprio il suo scudo rende quasi insormontabili e praticamente ineliminabili. Poi, per carità, la parte dei diritti fondamentali e delle libertà è un inno alla gioia, ne possiamo andare fieri come una Venere di Milo, splendida, ma senza braccia per agire. Se le regole sugli apparati pubblici e sulle sue articolazioni sociali ne impediscono o ne ostacolano la piena attuazione, allora la beffa consumata dai costituenti appare ancora più grande. Temevano, giustamente, uno Stato autoritario e hanno posto le radici per la nascita di uno Stato privo di autorevolezza, sfiduciato alla fine dai suoi stessi cittadini, tante volte indotti a costruire circuiti alternativi – vere e proprie corporazioni, spesso, se non lobby e cosche – attraverso cui esercitare le proprie pretese, tutelare i propri diritti, soddisfare le proprie aspettative; tutte cresciute e prosperate al riparo della tutela accordata alle «formazioni sociali» che costituiscono l’ossatura politica della Nazione (articolo 2) e ne sono divenute, una volta di troppo, la pietra d’inciampo.

Lunga, quanto sommaria, premessa per tornare al tema se la degenerazione correntizia della magistratura sia o meno «figlia della Costituzione», se si possa davvero ritenere che la sua bellezza sia stata sfigurata da figli degeneri e irriguardosi. Oppure se sia lecito dubitare che l’architettura costituzionale della giurisdizione, anche dopo la riforma del 1999, portasse con sé e in sé i germi di una inevitabile corrosione interna. Si faccia il caso: affiancare al principio di obbligatorietà dell’azione penale il precetto della ragionevole durata del processo (1999-2001) è equivalso a innescare una miccia esplosiva che ha fatto definitivamente deragliare un treno già reso ondivago e traballante dalla previsione di un rito processuale di stampo accusatorio (1988). È chiaro che la prescrizione sia uno scempio morale e costituzionale, ma è resa inevitabile dall’enormità del carico penale che è generato proprio dal principio di obbligatorietà dell’azione penale per giunta da attuare in un processo accusatorio. Una miscela talmente instabile da aver consentito a taluno di affermare che, purtroppo, le prove granitiche acquisite durante le indagini evaporano in dibattimento; quasi che, se non ci si mettessero di mezzo i difensori, avremmo il processo perfetto.

La Prima Repubblica mitigava il tutto grazie a un rito di stampo inquisitorio (1930) e, soprattutto, dispensando diffusamente amnistie e indulti. Poi il parlamento, sotto il cielo giustizialista (1992), si è privato anche di questo strumento di regolazione politica delle pendenze processuali e di depurazione delle aule di giustizia – prevedendo un’irraggiungibile maggioranza dei due terzi per approvarle – e gli effetti sono sotto gli occhi di tutti. L’ultimo provvedimento deflattivo è del 2006, mentre dal 1948 al 1992 erano stati adottati oltre 40 leggi clemenziali. Donde l’ergersi di un pm che, senza prescrizione, può condannare l’imputato alla pena del processo eterno e senza che nessuno possa porvi rimedio. È chiaro, ancora, che prevedere un Csm elettivo esaltava l’autogoverno della magistratura (non la sua autonomia), svincolandola dal ministro della Giustizia, ma si doveva immaginare che – nella pressoché totale inerzia del legislatore, incapace di mettere mano in modo radicale a un ordinamento giudiziario del 1941 – Palazzo dei Marescialli avrebbe finito per svolgere un ruolo decisivo e attrattivo verso le toghe, totalmente soggette al potere dell’organo di autogoverno e sotto ogni profilo della loro carriera.

Tanto da costringere la Corte costituzionale a dover ricordare che «nel patrimonio di beni compresi» nello status professionale dei magistrati «vi è anche quello dell’indipendenza, la quale, se appartiene alla magistratura nel suo complesso, si puntualizza pure nel singolo magistrato, qualificandone la posizione sia all’interno che all’esterno: nei confronti degli altri magistrati, di ogni altro potere dello Stato e dello stesso Consiglio superiore della magistratura» (sentenza 497/2000); un argine alle stesse funzioni consiliari previste dalla Costituzione e da rendere ancor più insuperabile nella crisi clientelare con un’adeguata «rivoluzione costituzionale».

(2-Fine)