Con l’appello del 22 febbraio scorso 67 magistrati hanno chiesto al capo dello Stato di intervenire per sollecitare la rapida approvazione delle misure legislative necessarie per pervenire a “una radicale riforma dell’Ordinamento giudiziario”. A questo scopo hanno proposto l’inserimento del sorteggio nella procedura di selezione dei componenti togati del Consiglio Superiore della Magistratura, la rotazione degli incarichi direttivi e semidirettivi (“per eliminare in radice il carrierismo e la concentrazione di potere in mano a pochi”), l’eliminazione dei fattori distorsivi dell’imparzialità e buon andamento della funzione di autogoverno, ripristinando la legalità delle sue procedure e allontanando “coloro che non sono risultati all’altezza del compito”.

Questo appello non può non essere apprezzato, perché attesta l’esistenza e l’emersione, all’interno della Magistratura, di energie che contestano le ormai ben note degenerazioni del sistema, suggeriscono concrete modifiche legislative e chiedono al contempo al presidente della Repubblica, nella sua qualità di garante della Costituzione, di sollecitarne l’approvazione. Il capo dello Stato è già intervenuto tre volte, e in termini molto crudi e preoccupati, sul funzionamento della Giustizia nel nostro ordinamento, richiamando i principi costituzionali che lo disciplinano. È stato costretto a ricordare che il magistrato «deve avere ben chiaro il confine che separa l’interpretazione della legge dall’arbitrio», che «i cittadini hanno diritto a poter contare sulla certezza del diritto e sulla prevedibilità della sua applicazione rispetto ai loro comportamenti», che è necessario «garantire il rispetto della legalità», nell’implicito ma chiaro presupposto che nell’effettività del nostro ordinamento tali principi non sono rispettati. Per quanto riguarda il funzionamento del Csm, ha definito “sconcertanti e inaccettabili” le modalità con cui vengono adottate le sue decisioni, aggiungendo che sono «in totale contrapposizione con i doveri basilari dell’ordine giudiziario».

La critica da parte del capo dello Stato della degenerazione del governo autonomo della magistratura è quindi netta; ma ad essa si accompagna l’enunciazione dei limiti della sua funzione, perché «ad altre istituzioni compete discutere ed elaborare eventuali riforme che attengono a composizione e formazione del Csm»: riforme che «seguirà con attenzione», perché «la Costituzione non gli attribuisce il compito di formulare ipotesi o avanzare proposte».
Di fronte all’appello dei 67 Magistrati è quindi presumibile che il capo dello Stato si limiterà a trasmetterlo al ministro di Giustizia e ai presidenti della Camera e del Senato, nelle cui competenze, rispettivamente propositive o deliberative, rientrano le richieste di rotazione degli incarichi direttivi, di introduzione del sorteggio nella procedura di selezione dei componenti del Csm, della nomina di una Commissione parlamentare d’inchiesta.

Ben diversa è la situazione per quanto riguarda l’ulteriore richiesta al capo dello Stato di intervenire «affinché sia finalmente intrapreso il cammino per l’eliminazione dei fattori distorsivi dell’imparzialità e buon andamento della funzione di autogoverno, ripristinando la legalità delle sue dinamiche, siano rimosse le cause che hanno condotto alla grave delegittimazioni di articolazioni essenziali dell’ordinamento giudiziario e del sistema di autogoverno della magistratura, sia assicurato l’allontanamento da tali ruoli di coloro che non sono risultati all’altezza del compito».

Il riferimento è all’accertamento delle eventuali responsabilità disciplinari del procuratore generale della Cassazione, componente di diritto del Csm, Giovanni Salvi, la cui nomina sarebbe avvenuta con le stesse irregolari modalità descritte da Palamara nel suo libro Il sistema. Il capo dello Stato, infatti, oltre ad avere in quanto tale una rilevantissima influenza sul Csm, ne è anche presidente e in quanto tale all’occorrenza lo presiede e partecipa ai suoi lavori. Non può pertanto sottrarsi a questa responsabilità, pretendendo che si faccia chiarezza su quanto emerso. Ciò è tanto più necessario in quanto, come conferma l’annullamento da parte del Tar della nomina di Michele Prestipino a capo della Procura di Roma, la contestata e deprecata vecchia prassi non sembra essere mutata.

Evidentemente, a differenza di quanto auspicato dal capo dello Stato, all’interno della magistratura non si sono ancora sviluppati in numero sufficiente “gli anticorpi necessari” in grado di assicurare “rigore e linearità” nelle scelte del Csm. La crisi dell’ordine giudiziario ha però ormai raggiunto una intensità, mai verificatasi prima nella storia della nostra Repubblica, non più tollerabile, perché mette a repentaglio la democrazia, la libertà e i diritti dei cittadini. La estrema correttezza con la quale il presidente Mattarella ha interpretato ed esercitato la propria funzione, gli ha consentito di acquisire un consenso molto largo e quindi la fiducia della maggior parte dei cittadini.

È questo un patrimonio politico che gli consente, pur restando nell’ambito delle norme costituzionali che disciplinano la sua funzione, di ricercare nella loro flessibilità e nei “precedenti” della Presidenza della Repubblica i mezzi e le iniziative necessari per ricondurre rapidamente nell’ambito della Costituzione il potere giudiziario.