Al Presidente della Repubblica Prof. Sergio Mattarella
Alla Presidente del Senato
Sen. Maria Elisabetta Alberti Casellati
Al Presidente della Camera, On. Roberto Fico

Con i Suoi ampi e motivati interventi del 21 giugno 2019 all’Assemblea plenaria straordinaria del Consiglio Superiore della Magistratura sul “caso Palamara” e del 18 giugno 2020 in occasione del quarantesimo anniversario dell’uccisione dei magistrati Nicola Giacumbi, Girolamo Minervini, Guido Galli, Mario Amato e Gaetano Costa e del trentennale dell’omicidio di Rosario Livatino, Lei ha ribadito i principi costituzionali di autonomia e indipendenza dell’Ordine Giudiziario, essenziali in un ordinamento democratico per perseguire il primato della legge; ma ha al contempo deplorato con il primo intervento la convinzione di alcuni magistrati di “poter manovrare il Csm” e la conseguente “pretesa di orientare inchieste e condizionare gli eventi” (cioè di precostituire decisioni giudiziali non conformi alle prescrizioni legislative e quindi contrarie alla Costituzione); con il secondo le disfunzioni dell’Ordine Giudiziario, che hanno minato “la credibilità e la capacità di riscuotere fiducia” da parte dei cittadini, i quali hanno il diritto di “poter contare sulla certezza del diritto e sulla prevedibilità della sua applicazione” .

La Presidente del Senato Maria Elisabetta Alberti Casellati nella sua intervista pubblicata dal Corriere della sera il 30 maggio 2020, ha affermato con estrema sintesi ed efficacia che «non esiste solo il problema Palamara…, ma esiste il problema della giustizia italiana… È in gioco il nostro Stato di diritto»! Secondo le due più alte cariche dello Stato è quindi incerta nel nostro ordinamento l’effettività dei valori che stanno a fondamento della convivenza civile: il principio di legalità, la certezza del diritto, la tutela dei diritti dei cittadini, il principio di uguaglianza: valori che dovrebbero essere perseguiti da un corpo di magistrati autonomi e indipendenti, subordinati alla legge, cioè incaricati di interpretarla e applicarla ai casi concreti non arbitrariamente, ma con razionalità e coerenza nel rispetto dei consolidati canoni ermeneutici.

Se si ritiene che una conquista di civiltà come lo Stato di diritto sia quanto meno a rischio nel nostro ordinamento, vuol dire che almeno una parte della Magistratura, che ha il compito di applicare la legge nei rapporti sociali, non lo adempie, ma sostituisce ad essa la propria volontà. La pretesa dei magistrati di “essere la legge”, è purtroppo diffusa. Franco Coppi, decano dei penalisti, professore emerito, ha amaramente rilevato che «accade sempre più spesso, purtroppo, che certi pronunciamenti risultino incomprensibili all’uomo della strada e pure a noi avvocati… Certi episodi sono talmente inverosimili che temo di non essere creduto» (intervista a Il Foglio del’1 agosto 2019), mentre addirittura agghiacciante è la sua risposta alla domanda se avesse paura di farsi giudicare da questa giustizia: «Sì, avrei paura di farmi giudicare dalla giustizia italiana. Faccio mie le parole di un vecchio criminalista: “Se mi accusassero di aver rubato la Torre di Pisa scapperei immediatamente”. Lo diceva Francesco Carrara. Mi ritrovo» (intervista a Il Giornale del 19.06.2020).

La tecnica con la quale i magistrati si sottraggono alla legge, negando giustizia, è ben nota, diffusa e collaudata. Fra i numerosi espedienti utilizzati ricordo, a solo titolo esemplificativo, quelli di non valutare prove rilevanti depositate in giudizio; di interpretare i contratti omettendo le clausole “non gradite” perché contrarie alla decisione che si intende prendere; di desumere da una disposizione lo stesso contenuto normativo di quella appena abrogata; di fondare la decisione su un presupposto di fatto la cui esistenza è smentita dalla documentazione depositata in giudizio; di non applicare senza alcuna motivazione la giurisprudenza consolidata della Cassazione, pur avendola richiamata; di non tener conto dei fatti incontroversi tra le parti, ecc.

Questi esempi sono solo alcuni di quelli desumibili da 16(!) decisioni adottate da giudici diversi del Tribunale e della Corte d’Appello di Firenze, relative alle stesse parti e allo stesso rapporto: decisioni che tra l’altro non hanno tenuto conto, benché documentati, in un caso dell’omissione in un rendiconto di entrate per l’importo di circa 48.000,00 (Tribunale di Firenze, Sez. 2, sentenza n. 1007/2017) e in un secondo del ripetuto inserimento con artifici contabili di medesime spese in esercizi diversi per l’importo di circa € 69.000,00 (Tribunale di Firenze, Sez. 2, decreto n. 9179/2018 del 28.05.2018, privo di una pagina di motivazioni (!), confermato dalla Corte d’Appello, Sez. 1, decreto depositato il 14.05.2019, numero illeggibile, in entrambi i casi senza valutare le irregolarità contabili di carattere generale e specifico rigorosamente documentate).

Queste decisioni, incomprensibili alla luce del riconosciuto “alto livello di qualificazione professionale” dei magistrati, sono emblematiche delle disfunzioni dell’Ordine Giudiziario, che alcuni magistrati fanno risalire alle correnti interne dell’Associazione Nazionale Magistrati. È stato rilevato a questo proposito che «le correnti sono diventate cordate di potere non solo interne, ma anche esterne alla magistratura e condizionano la carriera e talvolta il lavoro quotidiano del magistrato» (A. Di Matteo, Il Fatto Quotidiano, 26 giugno 2019); che «la magistratura è governata da una oligarchia che non ha il minimo interesse per l’efficienza e l’indipendenza, ma persegue a qualsiasi prezzo solo i propri interessi. Primi tra tutti il controllo degli uffici con le nomine dei dirigenti e l’uso deviato del disciplinare…» (F. Lima, 4 giugno 2019); che «le correnti con la loro forza e la loro riconosciuta degenerazione hanno ostacolato l’effettiva indipendenza del singolo magistrato, creando centri di potere interni sinergici con settori della politica.

Il tutto con comprensibile pericolo non solo per l’equilibrio tra i poteri costituzionali dello Stato ma addirittura per l’imparzialità stessa dell’azione giudiziaria» (Appello al Ministro di Grazia e Giustizia di 30 Magistrati, Italia Oggi, 31 luglio 2017). Anche Lei ha riconosciuto che «questo è il momento di dimostrare, con coraggio, di voler superare ogni degenerazione del sistema delle correnti per perseguire autenticamente l’interesse generale ad avere una giustizia efficiente e credibile. È indispensabile porre attenzione critica sul ruolo e sull’utilità stessa delle correnti interne alla vita associativa dei magistrati». Accolgo l’invito e metto le mie riflessioni e la mia esperienza a disposizione Sua, delle Camere, del Governo in via di formazione, delle forze politiche e specialmente di tutti quei cittadini che ogni giorno subiscono l’ingiustizia della nostra “Giustizia”, affinché ne conoscano le cause e possano pretendere l’adozione di misure urgenti per un radicale cambiamento.

Interrogarsi sul ruolo e sull’utilità delle correnti (e quindi della stessa Anm di cui le prime sono componenti interne), ritenute causa dell’inefficienza e della mancanza di credibilità del sistema giudiziario, significa interrogarsi sulla libertà di associazione, che ne costituirebbe il fondamento. Per quanto diffusa, o addirittura unanime, non si possono tuttavia nascondere, specialmente alla luce delle disfunzioni sopra richiamate, le perplessità sulla conformità alla Costituzione di questa interpretazione. Ciascun magistrato, singolarmente considerato, è infatti un “Potere dello Stato”, abilitato a sollevare conflitto di attribuzioni presso la Corte Costituzionale. Non mi sembra, specialmente in mancanza di una norma costituzionale esplicita che lo consenta, che i Poteri dello Stato possano associarsi tra loro. Non a caso la Costituzione riconosce e garantisce la libertà di associazione ai “cittadini” (art. 18 cost. ).

A ciò si aggiunge che le associazioni possono perseguire qualsiasi fine, anche di natura politica, che non sia vietato ai singoli dalla legge penale. Non vi è chi non veda il pericolo di un’associazione costituita da magistrati, in quanto tali dotati di poteri coercitivi della libertà personale dei cittadini, che potrebbero essere sviati dalla loro funzione per motivi politici. La Costituzione definisce ancora la magistratura come un “Ordine”, sottolineando così la sua natura “diffusa” e priva di un “vertice”. Ogni associazione, invece, ha una struttura organizzativa che esercita il potere al suo interno e che trasforma la pluralità di iscritti in un’entità che agisce unitariamente. Costituendosi in associazione i magistrati si sono pertanto trasformati da “Ordine” diffuso in un vero e proprio “Potere”, di fatto oligarchico, costituito dalle sfere dirigenti dell’ Anm e delle sue correnti interne.

I magistrati costituiti in associazione, e per essi le loro correnti interne, facendo eleggere i propri candidati nel Csm – cioè nell’organo di rilevanza costituzionale rappresentativo di tutto l’Ordine Giudiziario in quanto eletto dalla totalità dei suoi componenti-, si sono appropriati di fatto, com’è noto, dei suoi poteri. Poiché dal Csm dipende tutta la carriera dei magistrati (dalle assegnazioni ai trasferimenti, dalle promozioni ai procedimenti disciplinari), le correnti sono in condizione, come lamentato da alcuni di loro, di incidere sulla loro autonomia e indipendenza, influenzando l’esercizio delle loro funzioni in violazione dei principi di autonomia, di imparzialità e di subordinazione alla legge. Mentre infine un “Ordine diffuso” per la sua parcellizzazione può essere difficilmente controllato da singoli individui, gruppi, centri di potere di qualsiasi genere, ecc., l’influenza sui vertici associativi da parte di soggetti esterni può essere molto più facile, rapida ed efficace.

È stata giustamente ricordata a questo proposito (G.C.Caselli, Il Fatto Quotidiano, 21 luglio 2020) la radiazione dall’ordine giudiziario da parte del Csm dell’allora segretario della corrente “Magistratura Indipendente”, con il quale la P2 aveva stretto un “accordo programmatico” sorretto da “concreti aiuti”. Questo fenomeno eversivo, innestatosi sulla struttura associativa dei magistrati, è ormai lontano nel tempo. L’attenzione deve però rimanere vigile, perché sempre latente, se non addirittura effettiva, è la possibilità che si verifichi l’infiltrazione in essa degli interessi più diversi, la cui soddisfazione potrebbe essere facilitata e attuata con il controllo capillare sui singoli magistrati mediante le designazioni agli uffici direttivi disposte dal Csm su indicazione di soggetti privati: le sfere dirigenti dell’Anm e delle sue correnti interne. L’ulteriore controllo degli stessi soggetti sul procedimento disciplinare, privo tra l’altro di trasparenza, consente di non sanzionare le responsabilità che dovessero emergere.

L’Ordine Giudiziario si è quindi radicalmente trasformato rispetto alle previsioni costituzionali in una struttura unitaria e oligarchica, vero e proprio Potere di fatto, privo di legittimazione democratica e di controlli. Questa trasformazione, da tempo divenuta di pubblico dominio, oggetto di preoccupati richiami da parte di Organi costituzionali, di interventi critici quotidiani sulla stampa e di proposte di riforma, fa seriamente dubitare dell’esistenza nel nostro Ordinamento dei requisiti di indipendenza e imparzialità del giudice previsti dall’art.47 della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea, dall’art. 6 della Carta Europea dei Diritti dell’Uomo e dall’art. 14 del Patto Internazionale sui diritti civili e politici.

Non sorprende pertanto che la fiducia dei cittadini nella credibilità dell’Ordine Giudiziario sia oggi profondamente attenuata, benché, come da Lei giustamente ammonito, sia “indispensabile al sistema costituzionale e alla vita della Repubblica”. Occorre ricordare a questo proposito che la Corte Costituzionale, pronunciandosi sull’autonomia costituzionale delle Camere, ha affermato che «nello Stato costituzionale nel quale viviamo la congruità delle procedure di controllo, l’adeguatezza delle sanzioni regolamentari e la loro pronta applicazione nei casi più gravi di violazione del diritto parlamentare si impongono al Parlamento come problema, se non di legalità, certamente di conservazione della legittimazione degli istituti di autonomia che presidiano la sua libertà» (Corte costituzionale, sentenze n. 379 del 1996 e n. 375 del 1997). È noto inoltre che il protrarsi della violazione dei diritti della persona, derivante da un uso arbitrario da parte delle Camere dell’istituto dell’insindacabilità, ha spinto la Corte Costituzionale a restringerne drasticamente l’interpretazione, in applicazione dei suddetti principi, rispetto a quella storicamente consolidata.

Queste decisioni si estendono anche all’autonomia e indipendenza dell’Ordine Giudiziario, il cui abuso non solo incide sulle libertà e sui diritti dei cittadini in modo più intenso di quanto in passato avrebbero potuto mai fare le Camere, ma addirittura sullo stesso principio democratico. Non si deve dimenticare da un lato che la giustizia è amministrata in nome del popolo, la cui volontà si esprime nella legge, alla quale il magistrato è formalmente soggetto, ma da cui si può svincolare a sua discrezione e senza alcun timore; e dall’altro che numerose e note sono le carriere politiche stroncate da indagini penali prive di fondamento.

Per riportare l’Ordine Giudiziario nell’alveo della Costituzione, superando le disfunzioni esistenti, sarebbe a mio avviso opportuno valorizzare la funzione rappresentativa dell’Ordine Giudiziario che la Costituzione, attraverso l’elezione, affida al Csm; spezzare di conseguenza il cordone ombelicale che lega il Csm all’Anm e alle sue correnti interne (le modifiche del sistema elettorale da sole non mi sembrano sufficienti); rendere effettive le garanzie di indipendenza dei magistrati da influenze interne e, specialmente per quelli titolari di uffici direttivi, anche esterne; sottoporre i magistrati a controlli di professionalità effettivi e diffusi, coinvolgendo pienamente anche l’Ordine professionale; valorizzare a questo scopo le decisioni di annullamento dei giudici di secondo grado e di legittimità, qualora fossero indice di una professionalità carente; affidare ai giudici di secondo grado e di legittimità l’attivazione della responsabilità disciplinare, qualora in sede di annullamento ne accertassero i presupposti, prevedendo adeguate forme di responsabilità in caso di omissione; rendere pienamente trasparenti tutte le fasi del procedimento disciplinare, mettendo quindi le Camere in condizione di verificarne periodicamente la funzionalità e se del caso di adottare i provvedimenti correttivi; valutare fin d’ora, alla luce della gravità delle disfunzioni esistenti, l’opportunità di intervenire sul procedimento disciplinare anche ricorrendo al la modifica della Costituzione. Sono sicuro che nella Sua qualità di rappresentante dell’Unità nazionale, e quindi dei valori supremi nei quali si riconoscono tutti i cittadini, saprà recepire la loro ansia di un rinnovamento radicale dell’Ordinamento giudiziario e, nell’ambito dei Suoi poteri, trovare le forme più adatte per la sua soddisfazione.

Resto a disposizione Sua e delle Autorità competenti per fornire ogni informazione e documentazione attinente alle disfunzioni sopra rilevate nel Tribunale e nella Corte d’Appello di Firenze, le quali costituiscono il fondamento delle riflessioni sopra esposte. Ho infatti consapevolezza che dall’analisi delle 16 decisioni, che per ora si sono succedute nell’arco degli scorsi 15 anni, si potranno accertare le responsabilità di diversa natura eventualmente esistenti e desumere al contempo elementi significativi sia per la comprensione del funzionamento effettivo dell’Ordinamento giudiziario italiano e dell’intensità della sua deviazione dalla Costituzione e dalle norme comunitarie e internazionali sia per l’adozione delle conseguenti misure legislative.

Le porgo i miei deferenti saluti.