È chiaro che i cinefili storceranno il naso e staranno a brontolare per la citazione blasfema, ma a guardare l’universo dolente descritto da Il Sistema è quasi naturale deformare il titolo di uno dei capolavori di Costa-Gravas (1969) e dire “P-L’orgia del potere” ove – sia chiaro – la “P” non identifica necessariamente il dottor Palamara o solo lui.

Quel film è, come noto, ispirato alla vicenda del giudice Sartzetakis, cacciato dai militari greci dopo il golpe del 1967, imprigionato e torturato che diverrà, dopo il film e dopo la caduta del regime, presidente della Repubblica greca. Un mondo, quello della pluripremiata pellicola, distante anni luce dall’umanità fragile e moralmente emaciata che emerge da pagine e pagine di una narrazione resa visibilmente parziale dalla necessità di limitare il racconto ai soli fatti dimostrabili per evitare un profluvio di cause e querele. Dietro ogni chat si intravede l’esistenza di dialoghi, la consuetudine di conversazioni, il succedersi di contatti e di sollecitazioni puramente evocati dai messaggi in sequestro.

Una scelta, probabilmente inevitabile per il prestigioso editore del libro, che tuttavia rende ancora più urgente la necessità che l’ex presidente dell’Anm sia compiutamente ascoltato e altrettanto meticolosamente riscontrato. Si nota, in questi giorni e dopo un silenzio ai limiti dell’osceno, l’affannarsi di qualcuno che sarebbe da ascrivere a buon diritto tra quelli tratteggiati dal dottor Palamara come pedine fondamentali del Sistema che taccia la narrazione del libro di fornire una «ricostruzione molto parziale, fondata su episodi chirurgicamente selezionati, … nonché su palesi dimenticanze e omissioni». Una censura che, letteralmente, sottintende da parte di chi la formula una certa, come dire, più completa ed esaustiva conoscenza dei fatti che, allora, farebbe bene a disvelare, sol che la possieda. È la trappola argomentativa da cui si tengono fuori i più avveduti interlocutori in questi giorni di tempesta.

Difficile dire che il magistrato abbia detto cose inesatte o imprecise senza esporsi al rischio di dover fornire una versione alternativa o più completa delle stesse vicende. Absit iniura verbis, è un po’ come nei processi di mafia in cui, da Pippo Calò in poi, e dopo il disastroso confronto con Tommaso Buscetta nell’aula bunker di Palermo, nessun imputato è disponibile al confronto con il pentito di turno. E non è un caso che il dottor Palamara, a fronte delle legittime rimostranze di taluno per le cose da lui raccontate, abbia detto di essere disponibile a qualunque confronto innanzi al Csm. Non v’è dubbio che, in questo clima, il solo ammettere certe conversazioni o certi contatti equivarrebbe a un riscontro a favore del narrante; dunque un buon avvocato suggerirebbe un accorto silenzio, ammesso che qualcuno di quelli più coinvolti non conosca minuziosamente i riti e la storia della mafia siciliana.

In questo scenario in cui il silenzio giova tutto a favore dei colpevoli e in cui gli innocenti non possiedono ancora l’”audacia della speranza” (Barack Obama) – temendo di pagare il conto per qualche eccesso di zelo accusatorio contro un Sistema che si percepisce come troppo radicato per non ricompattarsi – non si intravedono soluzioni a portata di mano. Deve certo essere messa da parte la proposta stucchevole e ingenua del rinnovamento morale, totalmente improponibile non foss’altro perché non si capisce perché un codice deontologico dovrebbe sortire effetti migliori del codice penale che appare abbondantemente violato da molti dei protagonisti della stagione spartitoria e che solo la riforma dell’abuso d’ufficio varata dal governo Conte-bis manda impuniti.

Resta il profilo delle riforme. Anche qui si deve constatare come siano sul tappeto proposte insufficienti, macchinose, burocratiche, largamente inidonee al fine di correggere la rotta morale della magistratura italiana, o meglio di quei settori coinvolti nell’arena degli incarichi e delle prebende di vario genere. Si potrebbe ritornare, per gli incarichi direttivi, al criterio dell’anzianità che venne derogato in una stagione della magistratura italiana in cui vi era un’evidente e chiara disparità tra le qualità di alcuni sul versante dell’impegno professionale e il quieto vivere di molti altri.

Il merito divenne allora il grimaldello con cui scardinare un assetto, soprattutto delle procure della Repubblica, che si mostrava refrattario alla modernità delle investigazioni e titubante nell’aggressione al malaffare politico-mafioso. Un modello meritocratico che, a dire il vero, in tanto si è potuto affermare in quanto il rinnovamento generazionale della magistratura aveva accresciuto la platea di quanti scalpitavano, a fronte di capi ufficio visibilmente inferiori, ed erano alla ricerca di spazi di responsabilità.

In seguito, purtroppo, il merito è diventato l’escamotage con cui promuovere i più rampanti (anche mediaticamente) a incarichi cui mai avrebbero potuto aspirare in ragione della loro anzianità o per agevolare opachi protégé delle correnti. Quella stagione del merito è così terminata, e da un pezzo. Nella magistratura italiana non vi sono da anni “mostri” di professionalità cui dover cedere il passo. O verso l’alto o verso il basso, difficile a dirsi, la magistratura si è ampiamente livellata e un rafforzamento reale dei controlli di professionalità (si veda l’ottimo intervento di Nello Rossi su queste pagine a proposito di un “sismografo inceppato”) potrebbe rappresentare il giusto contemperamento del criterio della sola anzianità.

Criterio il quale, si badi bene, conosceva ai suoi tempi un corollario nient’affatto secondario poiché si discuteva pur sempre di una «anzianità senza demerito». Certo provoca amarezza immaginare che un corpus così ristretto di funzionari pubblici sia percepito dalla pubblica opinione come fuori controllo e che il male minore sia ritornare a un tempo passato. Non bisogna trascurare che qualche buona scelta è stata fatta anche dal dottor Palamara o, meglio, dal Sistema e che di questa entrambi vadano giustamente fieri. Ma il tributo da pagare è stato enorme se si pensa alle tante nomine discutibili, alle distorsioni clientelari che sono deflagrate per l’esplodere di ambizioni smisurate, alla messe di ricorsi alla giustizia amministrativa.

A torto o a ragione quella che viene divulgata in questi giorni è l’epopea degli incarichi che ha avvelenato i pozzi della giustizia in Italia, trasformando agli occhi di tanti le correnti in ciò che il presidente dell’Eni, Enrico Mattei, diceva dei partiti: «uso i partiti allo stesso modo di come uso i taxi: salgo, pago la corsa, scendo», ossia mezzi per conseguire un fine personale; una normale, banale macchina clientelare. Certo nulla è perduto per sempre e un gesto clamoroso potrebbe suonare da provocazione verso la politica, per una stagione di riforme, e da rassicurazione, verso la pubblica opinione, per una reale volontà di cambiamento. L’articolo 57 dello statuto dell’Anm regola lo scioglimento dell’Associazione che deve essere deliberato dall’Assemblea Generale a maggioranza dei due terzi dei votanti.

Non sarebbe la prima volta, la gloriosa Associazione generale dei magistrati italiani scelse la via dell’autoscioglimento, prima di finire soppressa da Mussolini in base alla nuova legge del 1926 che vietava agli impiegati pubblici l’adesione a qualunque sindacato e risorse il 21 ottobre 1945. Achille Occhetto chiuse la stagione di un partito glorioso che rappresentava milioni di italiani per l’impellente necessità della storia e non per una costrizione giudiziaria e lo fece con una mozione approvata dal 67,46% dei votanti. Quindi diede vita a un nuovo partito, eliminando le scorie del passato. Certe volte il destino bussa alle porte e si deve avere il coraggio di spalancare l’uscio per evitare che il muro sia buttato giù a picconate.