Magistratopoli, piano piano, inizia a dare frutti. L’establishment del potere giudiziario ha finto di non vederla. Il Csm si è comportato come una specie di setta segreta, anche abbastanza sfacciata nel seppellire tutto sotto la sabbia. La politica si è voltata dall’altra parte. Il giornalismo… beh, non parliamo del giornalismo, perché quello italiano, ormai, in larghissima parte, è solo lo scantinato della magistratura. Non è certo il giornalismo che può ribellarsi allo strapotere e all’evidente grado di non indipendenza, e anche di corruzione profonda, venuto alla luce grazie al Palamara-gate. E però…

Però qualcosa è successo. Perchè la magistratura è un luogo piuttosto vasto. Composto da circa 8000 professionisti. Di questi ottomila c’è solo una parte modesta, forse di duemila persone, che ha in mano tutto il potere, che controlla le correnti, e dunque le carriere, gli assetti delle procure, le nomine, molto spesso anche le sentenze. La magistratura è un monolite, come quasi sempre succede ai poteri autoreferenziali. Cioè ai poteri che non subiscono controlli o condizionamenti o verifiche esterni. Ma alle volte succede che anche i monoliti si sfaldano. E succede che le minoranze al potere vengono messe in discussione.

Così è accaduto nel luogo sacro del potere giudiziario. Dico del potere giudiziario, non certo del diritto, perché le due cose non sempre, anzi quasi mai, coincidono. Questo luogo sacro è l’Anm, cioè l’associazione che raccoglie tutti i magistrati italiani e che da molti e molti anni è dominata dal partito dei Pm. È successo che una parte consistente della magistratura si è ribellata al partito dei Pm e gli ha tolto via lo scettro. Nessuno se l’aspettava. Non era mai accaduto. L’elezione di Beppe Santalucia a presidente dell’Anm è un fatto storico. Innanzitutto per una ragione oggettiva: per la prima volta da molti decenni diventa presidente dell’Anm un giudice. Almeno in questo secolo mai un giudice aveva ottenuto il comando: Bruti Liberati, Palamara, Sabelli, Davigo, Albamonte, Poniz: tutti uomini della procura. Eppure, i Pm sono solo una minoranza nel corpo della magistratura italiana. Ma una minoranza che ha in mano tutto il potere.

La vittoria di Santalucia su Poniz ha avuto subito un effetto deflagrante. Santalucia non solo è un giudice e non un Pm, ma è un giudice della Cassazione (dunque dell’istituzione più garantista della magistratura). Non è un forcaiolo, anzi è considerato un liberale, e appartiene a quella componente garantista di magistratura democratica che negli ultimi anni era quasi sparita, ma che fa parte del Dna della corrente di sinistra della magistratura. La nomina di Santalucia, che avviene a sorpresa, spacca Md e spacca tutto lo schieramento delle correnti. Proviamo a spiegare perché.

Nella magistratura italiana esistono diversi livelli di potere. Il potere istituzionale, e cioè il potere vero, quello che determina assetti, orientamenti e anche sentenze, che regola i rapporti col potere politico, che indirizza le carriere e gli organigrammi, è in mano a pochi uomini, in genere molto discreti, fuori dal clamore, che non amano la Tv, i giornali, la fama: amano il comando. Chi sono? Provo a fare tre nomi, difficilmente mi sbaglio: Michele Prestipino, Giovanni Melillo, Francesco Greco. Sono i capi rispettivamente della Procura di Roma, di Napoli e di Milano. Prestipino è il successore di Pignatone, ex deus ex machina del potere giudiziario. Melillo ha costruito la sua carriera al ministero. Greco ha una grande esperienza nella lotta contro la politica, perché è l’autore del primo clamoroso arresto di un segretario di partito (Pietro Longo, Psdi, 1992) e poi partecipa attivamente al pool mani pulite che smantella e liquida la Prima Repubblica.

È questa troika, oggi, che tiene stretto il bastone del comando. Poi c’è il partito dei Pm, che è molto rumoroso, vistoso, super politicizzato, spesso folkloristico. Sostenuto da stampa e Tv. E che partecipa attivamente, e controlla, tutte le correnti. La tattica del partito dei Pm, fin qui, è stata molto semplice: stare nelle correnti di sinistra, di centro e di destra, in modo da avere una quota di potere molto superiore alla propria forza reale. In particolare, il partito dei Pm aveva conquistato la corrente più importante della magistratura, e cioè Md (“Magistratura democratica”) che nasce negli anni Sessanta su posizioni di sinistra e garantiste ma da diversi anni è diventata la corrente delle cosiddette “toghe rosse” che si sono poste alla testa del pensiero e della pratica giustizialista. Il partito dei Pm si interfaccia con la troika, la sostiene, in parte la condiziona, in parte obbedisce.

La novità di questi giorni, probabilmente in buona parte dovuta al clamoroso scandalo di magistratopoli, è che in Md si è indebolita la forza dei giustizialisti. Il primo scricchiolio si era sentito sull’affare Davigo. Piercamillo Davigo certamente non è un magistrato di sinistra, anzi è sempre stato considerato esponente della destra estrema. Però da diversi anni è lui la bandiera del giustizialismo, ed è esattamente sul giustizialismo che si era realizzata una convergenza col gruppo di testa di Md e si era formata, anche in Csm, una specie di alleanza di potere rosso-bruna, con le truppe di Md e il cervello davighista, che aveva preso il sopravvento. Quando in settembre si è posto il problema di accettare o respingere la pretesa, arrogante di Davigo di restare in Csm nonostante il pensionamento, una parte consistente di Magistratura democratica si è ribellata. Ha detto no. Davigo non se l’aspettava. Ha perso una battaglia che era sicuro di vincere e ha dovuto lasciare la magistratura. Da lì è iniziato il terremoto.

Ora alcuni tra i più noti e potenti esponenti di Md (Cascini, Albamonte, Poniz) si sono dimessi dalla loro corrente per protesta contro la linea liberale che ha prevalso. Quali saranno le conseguenze? Probabilmente la mossa del gruppo Cascini costringe il partito dei Pm a uscire allo scoperto. Voglio dire: a unificarsi e a dichiararsi. Non sarebbe una cosa cattiva. Sarebbe oggettivamente un atto di semplificazione. Porterebbe la lotta all’interno della magistratura dal piano della pura lotta di potere a quello di una lotta sulle idee: da una parte i settori (che probabilmente sono maggioritari) della magistratura convinti che la bussola debba essere sempre il diritto, e non la lotta politica o la moralizzazione, dall’altra parte la componente giustizialista, che sicuramente ha la maggioranza tra i Pm ma non nella magistratura giudicante.

Perché questa sarebbe una grande novità? Perché finalmente si potrebbero separare gli schieramenti di potere dagli schieramenti delle idee. Una magistratura aperta, dove si confrontano le idee e non solo i rapporti di forza, è l’unica precondizione a una possibile riforma della giustizia. Finora la riforma è stata impossibile perché il fortino della “casta” giudiziaria era inespugnabile. Stanno per cambiare le cose?
Ho sempre pensato che l’unica possibilità di una riforma della giustizia risiedesse in una rottura nel monolite magistratura. Dal giornalismo e dalla politica non mi sono mai aspettato nulla. Se il monolite si è rotto davvero, possiamo tornare a sperare. Non è mai troppo tardi per provare a rimettere insieme i cocci dello Stato di diritto.

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Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.