È iniziata la resa dei conti fra le toghe di sinistra. Senza neppure aspettare il prossimo congresso nazionale, in programma (Covid permettendo, ndr) fra un mese, venticinque toghe iscritte a Magistratura democratica hanno deciso questa settimana di abbandonare il gruppo con “effetto immediato”. Fra loro, gli ultimi due presidenti dell’Anm, i pm Eugenio Albamonte e Luca Poniz,
l’ex segretaria nazionale della corrente, Anna Canepa, alcuni esponenti di punta delle passate giunte dell’Anm, come Alcide Maritati.

La motivazione ufficiale sarebbe che Md negli ultimi tempi, dopo aver contribuito alla «trasformazione della magistratura, da corpo burocratico chiuso, strutturalmente ed ideologicamente vicino alle classi dominanti, a potere diffuso, contraddistinto da un’organizzazione orizzontale e paritaria», «ha perso la spinta propulsiva» e «la sua capacità di intercettare e convogliare le spinte al cambiamento». «Abbiamo, pertanto, maturato la scelta, per noi dolorosa, di abbandonare il gruppo, non perché ci allontaniamo dai suoi valori e dalla sua identità, ma perché vogliamo continuare a farli vivere quali linee ideali del nostro impegno politico», scrivono i venticinque magistrati che, strappata la tessera di Md, rimarranno comunque iscritti ad Area, il cartello progressista di cui fanno parte anche i Movimenti. Oltre alla fine della spinta propulsiva, la mancata adesione al progetto di Area, il rassemblement di tutta la sinistra giudiziaria, è un altro punto oggetto di contestazione. «Assistiamo oggi – si legge, infatti, nella lettera di dimissioni – ad una formidabile accelerazione del gruppo dirigente di Md rispetto alla scelta di abbandonare il percorso verso Area».

Dulcis in fundo, le continue critiche all’operato di Area e delle sue rappresentanze al Csm e in Anm da parte della dirigenza di Md e dei suoi sostenitori, fondate «quasi sempre su postulati privi di contenuto». Tradotto per i non addetti ai lavori, il caso “Davigo” ed il caso “Cantone”. La dirigenza di Md era stata fin dall’inizio molto critica sulla possibilità che l’ex pm di Mani pulite rimanesse consigliere del Csm anche dopo essere andato in pensione per raggiunti limiti di età. Nello Rossi, già procuratore aggiunto a Roma e Avvocato generale in Cassazione, in un lungo articolo la scorsa estate su Questione giustizia, la rivista di Md, aveva bocciato la possibilità del pensionato Davigo togato a Palazzo dei Marescialli. Giuseppe Cascini, capo delegazione di Area al Csm, era stato invece fra quelli che si erano spesi maggiormente per la permanenza di Davigo: Cascini, dopo il cambio dei rapporti di forza al Csm a causa del Palamaragate, aveva stretto un patto di ferro con Davigo. E poi c’era stata, appunto, la nomina di Raffaele Cantone a procuratore di Perugia.

Cantone, che veniva da un lungo “fuori ruolo” come capo dell’Anac scelto da Matteo Renzi, era stato scelto per l’incarico delicatissimo di numero uno della Procura competente ad indagare sui magistrati della Capitale. Anche in questo caso notevoli erano stati gli attriti fra Md, che avrebbe voluto una figura dal passato meno “politicizzato” , ed Area. Alle “critiche” dei fuoriusciti l’esecutivo nazionale di Md, presidente Riccardo De Vito, segretario Maria Rosaria Guglielmi, ha risposto con un orgoglioso comunicato: «Crediamo in una magistratura progressista che, in quest’epoca di accresciute diseguaglianze e di moltiplicate povertà, sappia declinare di nuovo, accanto a progetti di efficienza e organizzazione, la volontà di inverare il progetto costituzionale di difesa dei diritti delle persone, soprattutto di quelle più svantaggiate: poveri, di migranti, detenuti, malati, disabili, ‘matti’, donne, persone discriminate per il loro orientamento sessuale o per la loro identità di genere».

E sulle dimissioni: «Tanto più dispiace perché ciò avviene in un momento in cui sono indispensabili la massima responsabilità e unità della magistratura associata, all’indomani di gravi vicende che ne hanno ferito l’autorevolezza e la credibilità agli occhi dei cittadini». Queste le giustificazioni ufficiali. Dietro l’abbandono dei venticinque, però, ci sarebbe un’altra verità. Inconfessabile. Quella legata ai rapporti di alcuni esponenti di Area con l’ex zar delle nomine Luca Palamara, al momento unico capro espiatorio della lottizzazione correntizia. Secondo la vulgata di questi mesi, Palamara (ieri è stata depositata la sentenza, oltre cento pagine, con cui la sezione disciplinare del Csm ne ha disposto ad ottobre la rimozione dalla magistratura, ndr) avrebbe sempre agito da solo. La lettura delle chat di Palamara ha fatto emergere un altro scenario. Molto diverso. È lunghissimo, ad esempio, l’elenco di toghe progressiste che si rivolgevano all’ex presidente dell’Anm.

Uno dei casi più clamorosi è proprio quella della dottoressa Canepa, sostituto procuratore generale presso la Dna. Canepa scrisse a Palamara nell’estate del 2018 alla vigilia della nomina del procuratore di Savona: «Scusa se ti disturbo. Savona è uno snodo fondamentale. Sono in corsa Arena (Giovanni) e Landolfi (Alberto), uno di Mi (Magistratura indipendente, la corrente di Cosimo Ferri, ndr) e l’altro di Ai (Autonomia&indipendenza, la corrente di Piercamillo Davigo, ndr), ma non è questo il problema. Sono due banditi incapaci, il migliore è Ubaldo Pelosi. Un collega veramente valido. Attuale reggente. Grazie e buon lavoro». Palamara, sempre galante con il gentilsesso, risponde: «Ok tesoro». Canepa ribatte: «Mi raccomando!». Palamara aggiunge: «Assolutamente sì». Pelosi, per la cronaca, diventerà procuratore di Savona.

E come dimenticare i rapporti strettissimi di Palamara con il togato Valerio Fracassi, altro esponente di punta di Area? «Ricordati che ti ho votato Pasca (Annarita) a patto che mi sistemassi Orlando (Massimo), non mi mollare», scrive Fracassi. E Palamara, rispettando gli accordi “spartitori”, risponde: «Assolutamente no, tu ordini, io eseguo». Forse dietro questo repentino abbandono c’è il desiderio di non fare i conti con un passato ingombrante. Altro che fine della spinta “propulsiva”.