Al Consiglio superiore della magistratura i testi della difesa non sono graditi. Come previsto dal Riformista già lo scorso 15 luglio, è stata integralmente cestinata la lista dei 133 testimoni di Luca Palamara. Il collegio della sezione disciplinare, che sta processando l’ex presidente dell’Associazione nazionale magistrati, li ha ritenuti irrilevanti e non attinenti agli episodi oggetto delle contestazioni. Palamara, si ricorderà, è accusato di aver tramato per screditare l’allora procuratore di Roma Giuseppe Pignatone ed il suo aggiunto Paolo Ielo, e di aver cercato di influenzare le nomine di alcuni uffici giudiziari, incontrando a maggio del 2019 in un albergo i deputati Cosimo Ferri e Luca Lotti e cinque consiglieri del Csm.

Il magistrato romano, sospeso dalle funzioni e dallo stipendio da oltre un anno, aveva chiamato a testimoniare ministri, ex presidenti della Corte costituzionale, procuratori, politici, ed anche i due più stretti collaboratori di Sergio Mattarella: il magistrato Stefano Erbani, consigliere per gli affari giuridici, e l’ex deputato del Pd Francesco Saverio Garofoli, consigliere per le questioni istituzionali. Nelle intenzioni di Palamara costoro avrebbero dovuto raccontare il modo in cui le correnti della magistratura si spartiscono a Palazzo dei Marescialli le nomine e gli incarichi. Una prassi risalente nel tempo che “giustificherebbe”, quindi, l’incontro in questione. Testimonianze scomode che il Csm ha preferito non sentire. Troppo alto il rischio che gli italiani venissero a conoscenza del fatto che l’Organo di autogoverno della magistratura, presieduto dal Capo dello Stato, sia in balia di associazioni di carattere privato. Molto meglio continuare a credere che gli incarichi vengano dati ai migliori.

Ammessi, dunque, su richiesta della Procura generale della Cassazione, solo i finanzieri del Gico della guardia di finanza che hanno svolto le indagini a carico di Palamara su delega della Procura di Perugia. Il primo a testimoniare sarà il generale Gerardo Mastrodomenico, ufficiale molto stimato all’epoca proprio dal procuratore Pignatone. Gli accordi fra politici e magistrati ci sarebbero stati, a detta di Palamara, anche per la scelta del vice presidente del Csm. L’ultimo caso, in ordine di tempo, riguarderebbe l’attuale numero due di Palazzo dei Marescialli, David Ermini (Pd). Palamara, esponente di punta della corrente centrista della magistratura e ras indiscusso delle nomine al Csm, nel 2018 aveva rotto lo storico patto con la sinistra giudiziaria per allearsi con le toghe di destra di Magistratura indipendente, di cui Ferri era il leader ombra. Ermini venne preferito all’avvocato milanese Alessio Lanzi di Forza Italia dopo una cena a casa di Giuseppe Fanfani, ex consigliere laico del Csm e vicino a Maria Elena Boschi. La sinistra giudiziaria, invece, aveva fatto accordi con i grillini, e quindi con il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, e avrebbe voluto come vice di Mattarella il professore pentastellato Alberto Maria Benedetti.

L’alleanza fra la sinistra giudiziaria e Bonafede si è intensificata nell’ultimo periodo. Sarà una coincidenza ma attualmente i dirigenti di via Arenula, ad iniziare dal capo di gabinetto e per finire al capo del Dap, sono tutti esponenti dei gruppi progressisti della magistratura. E sono di Magistratura democratica anche il primo presidente e il procuratore generale della Corte di Cassazione. Stefano Giame Guizzi, consigliere di Cassazione e difensore di Palamara, ha molto insistito, allora, sull’esistenza da anni degli accordi fra le correnti della magistratura e la politica. Per supportare tale assunto, ha citato anche un’intervista al Foglio del 2016, mai smentita, dell’ex consigliere del Csm Giorgio Morosini, toga di Md.

«La politica entra (al Csm) da tutte le parti. Sponsorizzazioni da politici, liberi professionisti, imprenditori: mi tocca assistere alla scelta di candidati che per competenze e curriculum non meriterebbero quel posto», disse Morosini, confermando quindi anni prima la tesi di Guizzi. Ma oltre alla discussione sui testi, ieri è stato affrontato anche il tema dell’ammissibilità delle intercettazioni effettuate nei confronti di Palamara con il trojan, relative all’incontro di maggio, su cui si basa il procedimento disciplinare.

L’utilizzo del trojan da parte della guardia di finanza, ha affermato Guizzi, era dettato «dalla necessità di monitorare le discussioni sulle future nomine di uffici direttivi tra Palamara e Ferri». Perché la finanza sentisse questa “necessità”, in una indagine per corruzione a carico di Palamara, resta un mistero.