La parabola associativa di Luca Palamara si è conclusa con un voto plebiscitario. L’Assemblea plenaria delle toghe ha confermato l’espulsione del proprio ex presidente più illustre e famoso con 111 voti a favore e uno solo contro. Nulla di inatteso. In questi giorni la decapitazione associativa della toga era stata data come inevitabile e a nulla è, infatti, servito il discorso – dicono a braccio – con cui il dottor Palamara ha tentato di convincere i propri colleghi a ribaltare il voto. Un giudizio, quello invocato innanzi alla base associativa della magistratura italiana, che tuttavia in principio non doveva essere apparso come inutile o scontato all’ex presidente il quale, fino a un certo punto, avrà anche pensato che le toghe fossero disposte a riconoscere – addirittura collettivamente e pubblicamente – la condizione della magistratura italiana e delle carriere dentro di essa.

Non sapremo mai in quale momento questa speranza è svanita e quando si è fatta strada la lucida consapevolezza che nessuno avrebbe potuto fargli scampare la ghigliottina associativa. Non sapremo mai quando gli ultimi tentativi di chiamare alla conta i propri fedelissimi e proni clientes di un tempo (il voto assembleare era aperto a tutti i circa 9.000 iscritti all’Anm) sono andati incontro a un fallimento totale e quando il dottor Palamara si è reso conto del terribile vuoto e della sua completa solitudine tra le fila, prima in larga misura inneggianti e plaudenti, della magistratura italiana.

La parabola umana è identica a tante altre e per questo non sarebbe il caso di spargere troppe lacrime sul corpo nudo del re deposto. Se non fosse. Se non fosse per quel voto solitario e anonimo che, in una arena totalmente ostile, si è espresso contro quella espulsione in un rigurgito non sapremo mai, ancora una volta, se di amicizia o di riconoscenza o di semplice solidarietà umana. Un voto contro 111. Poco, troppo poco alla luce del vasto consenso che circondava Palamara prima di commettere l’errore di impicciarsi di una nomina pesante senza aver capito che aveva impugnato il coltello dalla parte della lama. Molto, tuttavia, se si pensa a ciò che quel voto porta con sé; se si ragiona sulla possibilità che tanti voltagabbana e tanti muti spettatori di questa vicenda hanno di identificarsi in quel singolo voto che li scagiona e ne alleggerisce le colpe. Un voto contro, dietro e dentro il quale ciascuno potrà cercare la propria giustificazione e rivestire la propria indulgente assoluzione.

Appare chiaro che il dottor Palamara non ci pensava proprio a portare sul banco degli imputati il sistema i cui riti ha officiato al massimo livello, sperava piuttosto che il sistema – seduto sullo scranno del giudice – l’avrebbe perdonato e si sarebbe mostrato indulgente. Si era illuso che il sistema ammettesse spudoratamente la propria esistenza e si consegnasse, così, alla furia riformatrice dei propri detrattori. Quindi è vero, a occhio e croce, che la toga espulsa non voleva e non vuole alcuna Norimberga o alcuna purga collettiva, la cornice resta forse più modesta: appellandosi al voto segreto dei propri pari c’era la speranza che i tanti anni di militanza e di esercizio massiccio del potere generassero un moto di vicinanza, se non di riconoscenza. Quanto bastava per una riabilitazione politica prima di un giudizio disciplinare ampiamente in salita e sin troppo scontato nei suoi esiti stando a quel che si legge ogni giorno. Perso il giudizio politico, compromesso quello disciplinare, resta l’ultima istanza del processo penale a Perugia.

Un circuito interamente in mano alle toghe italiane con i propri difetti, ma anche con i propri grandi meriti, per fortuna del dottor Palamara. I magistrati di Perugia hanno coraggiosamente scoperchiato il pentolone ribollente e putrido del carrierismo e degli agguati che troppe volte ne hanno macchiato le sorti. In aula non ci sarà il sistema, ma come nella caverna di Platone se ne scorgeranno le ombre. Poco, ma meglio di niente.