Prima storia. Sul Corsera Francesco Giavazzi, economista bocconiano (particolare non di poco conto), scrive un editoriale sulle riforme che necessitano all’Italia e, volando di palo in frasca, ma sempre parecchio al di sopra del suo specifico professionale, propone che i magistrati siano controllati da qualcuno che dall’esterno verifichi tra l’altro se sono presenti ogni giorno in ufficio. Un delirio aziendalistico tipico del suo ateneo, il cui rettore Gianmario Savona la pensa allo stesso modo dei colleghi e ha qualche emulo americaneggiante anche alla Federico II.

Gli rispondono, prostrandosi alla brillante idea, il nuovo (eletto dopo faticosissimo parto) presidente dell’Anm e un membro del Consiglio nazionale forense: «Siamo pronti – è, in sostanza, il messaggio comune – dateci le risorse e vedete come vi restituiremo una produttività da fabbrica fordista». A questo punto, cinque davvero egregi magistrati (ne conosco un paio e per loro sono disposto a emulare Muzio Scevola, ma avrete notato che in questo articolo non si fanno nomi, si segnala un problema) prendono il cappello e sbattono la porta: «È troppo aderire a una cultura aziendalistica per una funzione dello Stato, non per questo abbiamo combattuto le nostre battaglie associative». Poi è venuto il documento dei ventuno: una denuncia forte, vibrante, alta. Non più maretta, ormai una tempesta. Non si potrà minimizzare, da parte dei vertici associativi.

Seconda storia. A dimettersi (forse avrebbe dovuto farlo con una lettera alla struttura presso l’ufficio in cui lavora, quello partenopeo, ma per ora ha scritto a Roma agli organi centrali) è stato anche il candidato fantomas a tutto che – sperando che non faccia la fine di sora Camilla, quella che tutti la vogliono e nessuno se la piglia – per il momento è corteggiato dal centrodestra, ieri per la presidenza della Regione, oggi per la carica di sindaco di Napoli, il tutto mentre svolge con una mano un lavoro concettualmente caratterizzato dall’imparzialità e con l’altra saluta da remoto, come oggi necessario, Berlusconi, Meloni e Salvini. Non sentendosi difeso con calore sufficiente dalla vicepresidente dell’Anm, altro magistrato locale, nella sua “criptoambizione”, ha fatto il beau geste riferito.

L’Anm è un corpo intermedio essenziale alla dialettica democratica. Fondata agli inizi del Novecento, dopo il delitto Matteotti, piuttosto che arrendersi al regime che voleva scioglierla d’autorità, preferì suicidarsi. Riformatasi nel secondo dopoguerra e dopo una prima fase articolatasi in correnti portatrici di visioni diverse del ruolo e della funzione della corporazione, col tempo è scaduta a palestra di carrierismi destinati a sfociare nel parlamentino dell’ordine, il Csm: quello del caso Palamara, tanto per capirci. Del resto era impensabile che la crisi di senso e di rappresentanza della società italiana non investisse anche i magistrati, che sono cittadini di questa Repubblica, non certo abitanti di Marte.

Le storie ricordate segnalano lo Scilla e il Cariddi da cui il corpo deve guardarsi: la chimera sbagliata dell’aziendalizzazione e il narcisismo politicistico di alcuni pubblici ministeri, che già tanti danni ha recato al Paese, ora vellicato qui dalla parte opposta di quella sinistra che negli anni gli ha offerto confortevole dimora, per assecondare il populismo giustizialista di una parte dell’elettorato. La rotta da seguire tra opposte insidie è che i magistrati tornino – come beninteso vogliono tanti fra loro, che però dovrebbero farsi sentire di più – a quello che la Costituzione prescrive debbano essere «soggetti solo alla legge», ricordando che la moglie di Cesare non dev’essere solo imparziale, ma anche mostrarlo.