Le dimissioni
“I tribunali non sono aziende”, in cinque lasciano l’Anm

I magistrati e la politica. È il binomio di cui si parla in questo periodo, a Napoli, in relazione al caso Maresca (in ambito politico si continua a fare il suo nome come candidato a sindaco della città ma lui, sostituto della Procura generale, sceglie di non sbilanciarsi ancora evitando per ora conferme o smentite). Ed è il binomio cui si fa riferimento anche per motivare lo strappo con l’Associazione nazionale magistrati (Anm) da parte di cinque magistrati napoletani che, in una lettera, hanno spiegato il perché della loro scelta di uscire dal sodalizio con «irrevocabili dimissioni».
I magistrati sono Dario Raffone, presidente di sezione, Paolo Itri, pm in forza alla Dda, Giuseppe Sassone, giudice in Corte d’Assise, e i giudici Federica Colucci e Michele Caccese. La miccia è stata innescata dalla risposta del presidente dell’Anm, Giuseppe Santalucia, all’intervento di Francesco Giavazzi sul Corriere della Sera a proposito di giustizia e riforme. «Pensavamo, in tanti lustri di servizio in trincea, di avere visto tutto. Ci sbagliavamo. Non conoscevamo l’attuale presidente dell’Anm il quale, evidentemente, per essere stato per troppo tempo lontano dalla trincea, non ha colto la superficialità e l’arroganza delle affermazioni di Giavazzi», scrivono i cinque dimissionari prendendo le distanze da Santalucia. Ed eccolo il tasto dolente, il nervo scoperto che i cinque magistrati napoletani hanno toccato.
«Quello che ha detto Giavazzi è noto ed è la solita tiritera sulla giustizia che non funziona, sulla necessità che i Tribunali debbano essere organizzati come un’impresa al cui vertice sieda un manager che controlli che i giudici vadano in ufficio tutti i giorni e altre amenità del genere», si legge nella lettera. Ma a completare la frattura, più che le tesi di Giavazzi è la risposta del loro ormai ex presidente.
«Fa, a noi, molto più effetto leggere la risposta del presidente dell’Anm il quale, concordando sulla necessità di moduli imprenditoriali per la nostra giustizia, obietta sostanzialmente che noi ci adegueremmo prontamente se solo ci dessero le risorse per farlo. Non una parola sul fatto che esistono settori della convivenza civile che non possono rispondere alla logica della valorizzazione del capitale, non una parola sul contenuto arrogante e offensivo di tali affermazioni per tanti magistrati che ogni giorno sacrificano tanto di sé per fare il proprio dovere. Non una parola per informare Giavazzi che i magistrati in ufficio ci vanno eccome, senza limiti di orario».
L’episodio, a sentire i firmatari della lettera di dimissioni, è espressione di una crisi più ampia. «Purtroppo, il fatto, ormai irrimediabilmente acclarato, è che questa Anm (alla cui recenti elezioni non ha partecipato il 30°% dei magistrati) è irrimediabilmente immersa in scenari e ideologie di tipo giavazziano, senza alcuna capacità di critica e di autonoma elaborazione. E ciò non solo sull’efficienza come strumento di giustizia, e non già come valore in sé, ma, più che altro, per l’incapacità di andare oltre il bla bla sulla questione delle correnti, sul caso Palamara e sulla moralizzazione del fenomeno dei fuori ruolo. Infatti, in perfetta coerenza con ciò, è stato eletto e nominato presidente un magistrato che ha fatto grande esperienza come fuori ruolo a contatto con il sistema politico». E concludono: «Pertanto, per questa incapacità di un pensiero diverso, per questo sostanziale tradimento dei valori per cui per tanti anni ci siamo battuti, presentiamo le nostre irrevocabili dimissioni dall’Anm».
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