Il caso
Tallini non c’entra nulla con la mafia, ma è stato arrestato per lo show
Non è un mafioso. È solo “un’ombra dietro le ombre”. Pure ha le manette, a domicilio. Oggi alle ore 15 Domenico Tallini, Mimmo, presidente dimissionario del Consiglio regionale della Calabria, sarà davanti al suo giudice, colui che, su richiesta della Dda governata da Nicola Gratteri, lo ha posto agli arresti domiciliari. Giulio De Gregorio, firmando le 357 pagine dell’ordinanza di custodia cautelare, ha subito messo le mani avanti nel timore dell’accusa di aver fatto copia-incolla, citando la solita sentenza della cassazione che autorizza il gip a farlo. Come a dire che colui che deve giudicare ed essere sopra le parti, in realtà può assumere come una carta assorbente l’ipotesi dell’accusa senza macchiare la propria imparzialità.
Anche se non ha copiato (tanto c’è il perdono, come in chiesa), ma si è solo ispirato al Gratteri-pensiero, il giudice De Gregorio sa benissimo che Mimmo Tallini non è un mafioso. Sa che le accuse di concorso esterno e di voto di scambio non hanno alcuna consistenza. E che di conseguenza non c’era alcun motivo per farlo arrestare. Il presidente del Consiglio regionale, seduto su uno scranno quanto mai fondamentale in questo momento così difficile per la Calabria, stava forse scappando? Stava forse per ripetere il voto di scambio in un momento in cui non sono in corso elezioni o per inquinare qualche scartoffia su un progetto di consorzio farmaceutico del 2014 che è fallito nell’arco di due anni? Certo, dalla parte del Gratteri-pensiero è comprensibile l’affannoso esasperato bisogno di ricorso alle manette nei confronti di un politico in ogni inchiesta sulle cosche. Prima di tutto perché in Calabria l’arresto di una ventina di persone, soprattutto per fatti di sedici anni prima, non avrebbe meritato certo le prime pagine dei giornali.
Ma soprattutto perché, se a ogni intervista, conferenza stampa o presentazione dell’ennesimo libro, il procuratore capo di Catanzaro si sgola a ripetere, nel caso non lo si fosse capito, che nelle inchieste di mafia esiste quel famoso “terzo livello” in cui non credeva Giovanni Falcone, almeno un colletto bianco nell’elenco degli arrestati deve esserci. Ma questa volta la mancanza di nesso tra i comportamenti di Mimmo e le cosche è particolarmente clamorosa. L’ex assessore al personale (era questo il suo ruolo nel 2013-2014) viene definito come molto “furbo” perché non saliva su auto altrui, ma diceva sempre “andiamo con la mia”. È ovvio che se uno fa questa scelta, non è perché magari si fida poco della guida altrui e preferisce stare lui al volante (ne conosco parecchi) o per qualsiasi altro motivo. No, è perché sospetta che tutte le altre auto siano traboccanti di microspie. E se non parla volentieri al telefono di vicende private o anche istituzionali o di affari, è sicuramente perché ha qualcosa da nascondere.
E non perché tutti ormai (tranne i cretini, che infatti si fanno sempre beccare, anche quando sono innocentissimi) e soprattutto i politici detestano parlare dei fatti propri al telefono perché non si sa mai. No, se Mimmo Tallini non parla al telefono è proprio per non far scoprire la propria partecipazione alle attività della cosca mafiosa. Leggiamo insieme queste 357 pagine. Nessun apparecchio fisso o mobile in uso all’ex assessore viene mai intercettato. C’è da domandarsi perché, visto che era sospettato di contatti con le cosche. E anche quando la sua voce viene captata sul telefono di qualcun altro, questo qualcuno non è mai un appartenente alla ‘ndrangheta.
Lui non ha alcun rapporto diretto con la famiglia Grande Aracri, i cui membri sono al centro dell’inchiesta “Farmabusiness”, né con alcun appartenente alla ‘ndrangheta. Parla con diverse persone di Roma, un commercialista, uno che viene definito come figlio di un medico dell’ospedale Gemelli, i quali sono a loro volta in contatto con una senatrice e il suo gruppo familiare, che avevano preso in affitto in Calabria una villetta di proprietà di un antennista di Sky.
L’antennista è quello che, saputo del progetto dei “romani” di avviare un consorzio per la vendita all’ingrosso di medicinali, li mette in contatto con l’assessore Tallini perché li aiuti a sbrogliarsi con la burocrazia e ad avere i permessi per la loro attività. Certo, lui si dà da fare parecchio, ma non per la mafia, piuttosto per motivi personali, come ad esempio trovare una collocazione lavorativa per il figlio e magari farci anche un piccolo investimento. Se proprio il giudice voleva trovare il pelo nell’uovo, e se in Italia, a partire da Matteo Salvini (che è stato bacchettato dal senatore Morra che lo ha beccato in un selfie con uno degli arrestati), non fossero tutti subalterni al procuratore Gratteri, forse si sarebbe potuto aver qualcosa da ridire sul fatto che un assessore si impegni anche personalmente in un’impresa commerciale. Si potrebbero fare osservazioni di tipo etico o sul buon gusto, o sul conflitto di interessi o su un improbabile abuso d’ufficio.
Ma che cosa c’entra la mafia? È vero che il famoso antennista teneva il piede in due scarpe, una delle quali era probabilmente poco pulita. Ma mai un piede si è congiunto all’altro. E quando il figlio di Tallini scopre qualcosa dei rapporti con la famiglia Grande Aracri, si spaventa moltissimo e manda tutto a carte quarantotto, portando dopo un po’ in tribunale i libri della società e facendola fallire. Una famiglia che si spaventa davanti a nomi “pesanti”, sta facendo voto di scambio e sta partecipando, sia pure esternamente, a un’associazione mafiosa?
Il gip Giulio De Gregorio risolve il quesito buttandola in arte e poesia. Ha un compito arduo, deve dimostrare la saldatura tra la posizione dell’uomo politico e un gruppetto di affaristi con cui lui è in contatto per il consorzio e una cosca mafiosa con cui invece Tallini non risulta aver mai neanche parlato, né di persona né al telefono.
Ecco in arrivo la vena poetica del magistrato, che si muove «rivolgendo l’attenzione ai margini dei vari avvenimenti che si susseguono; come accade quando si analizzano le luci e le ombre di un grande dipinto dai diversi angoli della sala di un museo. Si scopre così che vi sono ombre che lambiscono la scena e che, solo apparentemente, si vanno a perdere nell’oscurità, per restare invece visibili, come ombre dietro le ombre». Ecco chi è il “mafioso” Domenico Tallini: un’ombra dietro le ombre.
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