Calogero Mannino esce definitivamente dalla scena giudiziaria dopo trent’anni, trascinando con sé il castello di sabbia del processo “Stato-mafia”, ventiquattr’ore dopo la fine dei tormenti durati sette anni per Nunzia De Girolamo. Due imputati dal comportamento esemplare, secondo il canone di chi crede nella giustizia e nella lineare difesa dentro il processo. Pure tutti e due, e tanti prima di loro, compresi quelli che alla fine sono stati condannati, come Ottaviano Del Turco che di “giustizia” sta morendo, sono stati uccisi molto prima delle sentenze, negli anni di tortura loro erogati prima del processo e anche dal processo stesso. Nel mondo dei Predatori, che non danno scampo.

Se c’è la preda, c’è anche il predatore. Proprio come non esisterebbe la caccia se non ci fossero i cacciatori. Ma non si pensi che sia predatore solo chi tiene la propria vittima in una stanza per venti ore. Lo è anche chi tiene sotto sequestro la vita di una persona per anni, magari sette o magari anche trenta. A volte la vita si spegne prima che il predatore abbia terminato l’opera, in un’estrema forma di autodifesa, come ha fatto Enzo Tortora. Altre volte la mente e il corpo della preda si chiudono in un bozzolo di straniamento, una sorta di sedazione che tiene lontano dal dolore, come sta facendo Ottaviano Del Turco.

E tutti gli altri? Tutti gli altri sono costretti ad aspettare. Aspettare che il finanziere che ha svegliato all’alba te e la tua famiglia finisca la perquisizione. Aspettare che dai palazzi di giustizia cessino di uscire le carte a valanga destinate a planare nelle edicole e nei tubi catodici. Aspettare che i tuoi figli possano tornare a scuola senza essere colpiti da sguardi peggiori di lame. Aspettare che i vicini di casa smettano di evitarti. E poi aspettare tutto: gli interrogatori, il rinvio a giudizio, il processo, la sentenza.

Aspettare quanto tempo e quanti processi? Calogero Mannino è stato assolto quattordici volte. Oggi ha più di ottant’anni, quando è diventato preda ne aveva cinquanta. I cinquantenni oggi vengono spesso considerati ragazzi, chi di loro è entrato nel mondo politico ritiene di avere molto tempo davanti a sé prima di pensare alla pensione: Giuseppe Conte ha 56 anni, Zingaretti 55, i due giovanotti Renzi e Salvini rispettivamente 45 e 47. Provi ciascuno di loro a chiudere gli occhi e a immaginarsi fra trent’anni. Provino a pensare di trascorrerli nel modo che abbiamo sopra descritto, con uno stress continuo che non ti fa dormire la notte, che a tratti è vera paura, perché la vittima non può che temere il suo predatore.

Predatore non è la singola persona. Predatore è il contesto. Troppo facile pensare che la perfidia di un pubblico ministero non vada mai a braccetto con un giudice delle indagini preliminari dopo essersi già coricata con un ufficiale giudiziario ed essersi poi accompagnata a un cronista giudiziario o a un direttore di giornale. Era o no predatore, per esempio, quel contesto che si era creato a Palermo quando il direttore del Fatto Quotidiano era sceso appositamente in Sicilia per “fare il guitto” con uno spettacolo teatrale offensivo e ridicolo, per mettere in berlina un imputato mentre tutti i pm cosiddetti “antimafia” erano seduti in prima fila e, come dice Mannino, parevano quasi aver tratto ispirazione, “a parte le sgrammaticature” dallo spettacolo per scrivere la requisitoria?

Era o no predatore il contesto vissuto da Nunzia De Girolamo, quando subì una registrazione clandestina nella casa di suo padre dove si svolgeva una riunione politica, in seguito guardata con sospetto, che le costò le dimissioni da ministro e poi un rinvio a giudizio e un pm d’aula che, contraddicendo il suo collega che ne aveva chiesto l’archiviazione, ha auspicato che lei dovesse passare otto anni e passa della sua vita futura all’interno di un carcere?
La storia di Calogero Mannino, che oggi del suo predatore dice “Hanno distrutto un Paese”, è storia di caccia grossa. Il contesto di predazione risale addirittura ai tempi dei reati di mafia a Palermo. All’inizio si chiamava “Sistemi criminali”, un fiume carsico che andò dentro e fuori dagli uffici giudiziari, basato su un teorema che vedeva insieme un gruppo eterogeneo di soggetti che andavano dalla massoneria deviata a Cosa nostra, eversione nera e corpi dello Stato, che avrebbero messo in atto un tentativo di destabilizzazione del Paese.

Storia folle che non poteva che trovare nella follia della persona più inattendibile che sia mai circolata nelle aule giudiziarie, Massimo Ciancimino, il proprio padrino, il sigillo del contesto, il processo “Stato-mafia”, la Trattativa, la regina dei contesti di predazione. Il patto scellerato che nel corso di tutti gli anni Novanta avrebbe unito ai boss di Cosa Nostra persino un politico come Calogero Mannino che della lotta alla mafia aveva fatto una delle ragioni di vita. L’ex ministro democristiano si è ribellato al progetto dei predatori di processarlo insieme ai mafiosi e ha scelto un rito alternativo e solitario. Mentre altre persone perbene venivano nel frattempo condannate in primo grado (a dimostrazione che nei contesti predatori non esistono solo i pm), lui è stato sempre assolto. E ha avuto la soddisfazione di leggere nelle motivazioni dei giudici d’appello che le indagini preliminari avevano costruito un castello fatto di “incongruenze”, “inconsistenza” e “illogicità” dell’accusa.

Il castello è ormai franato, dopo che la cassazione e lo stesso rappresentante dell’accusa hanno ridicolizzato l’estremo tentativo dei procuratori generali Fici, Barbiera e Scarpinato. I quali non avevano più argomenti per il ricorso, se non violando il principio della doppia conforme che consente, in presenza di due sentenze di assoluzione dell’imputato, alla pubblica accusa di ricorrere in cassazione solo con argomenti inoppugnabili. Ed erano quindi ricorsi a una sorta di trucco, chiedendo ai supremi giudici di dichiarare l’illegittimità costituzionale di quella legge che a loro parere legava le mani all’accusa.

Volevano il processo eterno. Se trent’anni vi sembran pochi… Vorrebbero processi eterni tutti i predatori del contesto. Ecco perché non è più sufficiente difendersi NEL processo. Il processo, solo in quanto esiste, è già sofferenza e tortura. È un insieme di atti predatori che lasciano la vittima in una continua spasmodica attesa, come l’animale che se ne sta accucciato nella speranza che il cacciatore non lo veda, che il cane non ne riconosca l’odore o che arrivi una pioggia a cancellarne le tracce. È ora che si cominci a imparare a difendersi anche DAL processo. Non per sottrarsi alla giustizia, ma per denunciare il Predatore. Che non è solo quello che tiene la sua vittima prigioniera in una stanza per venti ore. Ma anche quello che sequestra la tua vita per trent’anni. O anche per un solo giorno.

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Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.