Era il 14 luglio del 2008. Le agenzie, le radio e le tv diedero la notizia che, all’alba, era stato arrestato, insieme ad altri, il Governatore dell’Abruzzo Ottaviano Del Turco. Allora io ero un deputato, appartenente ad un partito diverso da quello di Del Turco. Ma non esitai ad alzarmi in Aula – per anni nel più totale isolamento – per esprimergli tutta la mia solidarietà e la ferma convinzione della sua totale estraneità ai fatti di cui era accusato. Ottaviano ed io ci conoscevamo, allora, da 40 anni (oggi è trascorso mezzo secolo), durante i quali non c’era stata tra di noi soltanto una stretta collaborazione negli incarichi ricoperti all’interno della Cgil, ma anche un forte legame di amicizia, di frequentazione personale e familiare. Il procuratore che lo aveva incarcerato lo ricoprì, nella solita conferenza stampa, di accuse infamanti.

Affermò che della sua colpevolezza esistevano prove “schiaccianti”. Ma io non fui mai sfiorato dal minimo dubbio (il cuore ha delle ragioni che i codici non conoscono) e, in tutti gli anni successivi, nella ricorrenza del 14 luglio, ho continuato a chiedere la parola in Aula e ad affidare agli atti le mie attestazioni di solidarietà. Ottaviano del Turco è stato un grande sindacalista, appartenuto a quell’Olimpo degli eroi di cui hanno fatto parte nomi indimenticabili come Luciano Lama, Bruno Trentin, Pierre Carniti, Giorgio Benvenuto e tanti altri che hanno fatto la storia del sindacato (e del Paese) nella seconda metà del secolo scorso. Probabilmente, questi nomi, che a me ricordano tanti anni di vita vissuta intensamente, non dicono quasi nulla oggi. Del Turco è soltanto un ex parlamentare, malato di cancro e di altre patologie invalidanti, a cui è stato congelato il vitalizio perché condannato in via definitiva da una Corte di Giustizia.

Ma chi è, che cosa è stato e ha fatto Ottaviano Del Turco? In una delle Lettere morali a Lucilio, Lucio Anneo Seneca così scriveva: «Tutti i momenti che appartengono al passato si trovano in un medesimo spazio: si vedono su di uno stesso piano, giacciono gli uni insieme con gli altri, tutti cadono nel medesimo abisso. E d’altra parte lunghi intervalli non possono sussistere in una realtà (la vita, ndr) che è breve nel suo insieme». È così anche per quanto riguarda il rapporto tra me ed Ottaviano: i ricordi si presentano tutti insieme e in una sola volta. Innanzi tutto, Del Turco è abruzzese. Il suo paese natale si chiama Collelongo. Ci si arriva per una strada che finisce lì. Eppure, per lui quella località sperduta è sempre stata molto importante. Colà aveva scelto il suo “buon ritiro” (una bella casa ristrutturata con cura), che si è trasformato nel suo carcere.

È nota la sua attività di pittore: una passione che ha retto persino alla prova degli anni difficili della politica. E, purtroppo, ad eventi dolorosi più recenti. Prima che la malattia prendesse il sopravvento anche sul pennello, la tela e la tavolozza. Più piccolo di una numerosa squadra di fratelli, Ottaviano (il nome è legato al posto occupato nella saga familiare) seguì i più grandi quando andarono a cercare lavoro a Roma. I maschi avevano preso dal padre Giovanni ed erano tutti socialisti. Ottaviano scoprì giovanissimo la politica, anche come mestiere, nella Federazione romana del Psi. Chiusa l’esperienza nel partito andò a lavorare al sindacato e, dopo una breve permanenza all’Inca (il patronato della Cgil) si trovò alla Fiom durante l’autunno caldo. A suo onore va detto che non appartenne mai (chi scrive ne fu invece tentato) alla combriccola dei “giovani turchi”, abbacinati dai fasti di quella stagione, che pensavano fosse venuta l’ora dell’assalto al Palazzo d’Inverno del potere. Fu sempre attento ai rapporti con la Confederazione.

Da moderato, non fu mai ben visto completamente nella Fiom, al punto di essere sostanzialmente emarginato (forse si fece estromettere volentieri) dalla gestione della vertenza Fiat del 1980, benché ricoprisse il ruolo di segretario generale aggiunto. Aveva delle intuizioni felici. Fu il primo, nel sindacato, a sollevare il problema dei quadri e dei tecnici e ad individuare l’esigenza di soluzioni contrattuali specifiche per queste categorie. La cosa sollevò un mezzo scandalo, come sempre accadeva (e accade) in Cgil quando qualcuno inventava soluzioni nuove. Ma Del Turco non sarà ricordato per la sua particolare capacità di approfondire le questioni di merito, anche se la legge del contrappasso ha voluto che, alcuni decenni dopo, diventasse titolare del Dicastero più tecnico e complicato che esista (le Finanze). Del resto, da un vero leader nessuno pretende una conoscenza particolareggiata del sistema dei ticket sanitari. È stato, però, uno dei primi sindacalisti a capire l’importanza dei media.

E a comprendere, soprattutto, che una buona intervista (come aveva insegnato Luciano Lama), magari su La Repubblica, valeva di più (anche sul piano interno) di un articolato documento, scritto in sindacalese e votato da un organismo sindacale dopo ore di discussione. Durante gli incontri col Governo o qualche importante trattativa il suo vero pezzo di bravura si svolgeva quando l’incontro stava per concludersi. Riusciva sempre ad andarsene pochi minuti prima. Scendeva in sala stampa – praticamente da solo – e veniva accerchiato da un nugolo di giornalisti brandenti microfoni, taccuini e telecamere (allora i sindacalisti erano ascoltati). E dava il suo giudizio sull’incontro. Poi, quando scendevano le delegazioni al gran completo, i colleghi tenevano lunghe conferenze stampa, nelle quali venivano illustrati meticolosamente tutti gli aspetti del negoziato. Ma l’incipit era il più delle volte suo, come sue erano le prime riprese che andavano in onda nei telegiornali e le classiche tre parole che, nella società della comunicazione, mandano al macero intere biblioteche.

Proveniente dalla Fiom, entrò nel 1983 in segreteria confederale e divenne subito “aggiunto” di Lama. La sorte volle che Del Turco si trovasse a gestire la “grande rissa” tra comunisti e socialisti del 1984 e 1985 sulla scala mobile, dopo il decreto di San Valentino. Lo fece con molta fermezza e tanto equilibrio, in tandem con Lama. E sempre con molta attenzione all’unità della Cgil. In quegli anni, circolarono addirittura alcune leggende metropolitane secondo le quali a Del Turco era stato offerto di diventare il segretario di un costituendo sindacato democratico (Cisl + Uil + socialisti Cgil), ma Ottaviano non prese mai in considerazione tale ipotesi (peraltro confermata in un libro di Pierre Carniti, pubblicato postumo). L’atteggiamento di lealtà tenuto in quel periodo gli valse un grande rispetto da parte dei comunisti (i quali erano molto meno settari, al dunque, dei loro eredi di oggi, finiti nella Legione straniera del Pd o sparpagliati in qualche gruppetto nostalgico di ex socialisti). Basti pensare che Del Turco divenne, negli anni successivi, uno degli oratori ufficiali ai funerali dei leader del Pci (a partire da quello – solenne e solennizzato – di Enrico Berlinguer).

Ottaviano, negli ultimi tempi trascorsi in Cgil, era sempre meno interessato all’attività sindacale. Da tanto attendeva che dal partito gli venisse fatta una proposta. La sua maggiore aspirazione sarebbe stata la presidenza della Rai. Ma Craxi taceva. La sua grande occasione si presentò tra il 1992 e il 1993, nel pieno di Tangentopoli. Craxi non era ancora inquisito, ma ormai si era capita l’antifona: sarebbe stato sufficiente attendere qualche settimana, poi la questione socialista si sarebbe trasformata in un problema giudiziario. Claudio Martelli faceva la fronda (il suo slogan, rivolto a Craxi, era: «Un segretario non può diventare il “problema” del suo partito»). Ottaviano si schierò con lui, sia pure su di una linea leggermente diversa.

Si mise ad andare il giro per l’Italia a riunire i sindacalisti socialisti all’insegna dell’appello al capo supremo: il partito è inquinato, Craxi faccia pulizia (e magari con l’aiuto di qualche sindacalista autorevole). Intanto, dopo i dissensi con Trentin in merito all’accordo triangolare del luglio 1992, per Del Turco l’aria si era fatta stretta in Cgil. Decise di forzare i tempi ed annunciò che se ne sarebbe andato, anche senza avere altri incarichi a disposizione. Era il marzo del 1993. La maggioranza del partito, poche settimane prima, gli aveva reso un grave affronto, scegliendo Giorgio Benvenuto, quale segretario al posto di re Bettino.

Come Cincinnato, Ottaviano si ritirò a Collelongo. Intanto la situazione si deteriorava. Dopo qualche mese Benvenuto passò la mano, in polemica col vecchio gruppo dirigente che, a suo dire, non voleva farsi da parte. Ma in verità non volle prendere a mano la situazione amministrativa che Giorgio considerava disperata. Venne così il momento di chiamare Del Turco alla segreteria. Ottaviano si accinse a guidare i resti del Psi con molta fiducia in se stesso e girando in lungo e in largo l’Italia. Ma ormai non c’era più nulla da fare. L’anno dopo, toccò a lui condurre lo scontro decisivo con Craxi e vincerlo. Quando era già troppo tardi. Dopo aver lanciato Enrico Boselli alla guida di ciò che restava dello Sdi, Del Turco divenne parlamentare e ministro. Ritrovò posto sui media e la figlia gli regalò due bei nipotini. Soprattutto, svolse un ruolo assai positivo da presidente della Commissione antimafia, contro l’abuso dei pentiti ed una certa maniera disinvolta di amministrare la giustizia. Poi fu parlamentare europeo, e infine candidato vittorioso del centro sinistra alla presidenza della Regione Abruzzo.

In quel ruolo divenne vittima di un clamoroso errore giudiziario che ne ha provocato l’arresto, le dimissioni, l’ostracismo e una condanna passata in giudicato dopo una lunga trafila processuale. Dicono che un Paese è libero quando i cittadini onesti, sentendo suonare il mattino presto alla porta di casa, pensano che sia il lattaio. Probabilmente anche Ottaviano Del Turco, esattamente il 14 luglio del 2008, si chiese come mai il lattaio passasse ad un’ora antelucana in quel giorno destinato a diventare uno dei più drammatici della sua vita. Invece, aprendo ancora assonnato il portone dell’abitazione di Collelongo, trovò i militari della Guardia di Finanza che gli intimarono di raccogliere un po’ di biancheria e lo condussero nel carcere di Sulmona a rispondere di un’imputazione pesante e disonorevole per un uomo politico, come la corruzione. Chi scrive conferma la convinzione più volte manifestata in tante sedi che Del Turco fosse completamente estraneo alle accuse, tanto da ripetere, con la persecuzione giudiziaria subita, un nuovo “caso Tortora”.

Da allora, Del Turco è divenuto un uomo isolato e ignorato dal suo partito, dimenticato da tutti tranne che dai familiari e dagli amici, ferito nei sentimenti più intimi, escluso da quella politica attiva che ha rappresentato per decenni la sua ragione di vita. Fino ad essere oggetto di un abuso: la privazione di quelle risorse (il vitalizio) che consentono ai suoi cari di curarlo e di assicurargli di sopravvivere con dignità. Ma le sue condizioni di salute non gli permettono neppure di dire ai Maramaldi che lo hanno pugnalato: «Vili! Uccidete un uomo morto».