La justice est une espèce de marthyre (Jacques Bénigne Bossuet, teologo e predicatore francese del Seicento)

Discutiamo di parlamenti e governi, elezioni e partiti come se fossero ancora i pilastri della vita pubblica. Non è così, o non è più solo così. In Italia il gioco democratico è ormai vistosamente condizionato da un potere di corpo che trascende il circuito del voto: la magistratura. Insieme ai media, oggi costituisce l’architrave di una costituzione silenziosa in grado di decidere perfino le sorti di una legislatura. Ora, noi sappiamo tutto su come funziona il Parlamento. Sappiamo molto meno, invece, su come opera concretamente la magistratura. Certo, ci lamentiamo delle lungaggini e delle inefficienze che caratterizzano l’iter giudiziario, e quindi dei suoi costi sociali, economici e umani. Ma il più delle volte si tratta di un piagnisteo impotente contro un giustizialismo ottuso. Resta il fatto che, mentre i difetti di Parlamento e governo vengono utilizzati per invocare riforme radicali, la magistratura resta intoccabile. Pena il timore che venga messo in discussione il tabù della sua autonomia, nonostante lo scandalo che ha travolto proprio l’organo che dovrebbe garantirla (sulla riforma del Csm proposta dal ministro Bonafede, non ho nulla da aggiungere a quanto ha scritto Gian Domenico Caiazza su queste colonne).

Se non intervengono le manette, il politico, l’amministratore o il manager sotto accusa entrano nel cono d’ombra di un calvario processuale di cui si perderanno presto le tracce. Salvo tornare, ma molto più marginalmente, sui giornali nel momento dell’archiviazione o del proscioglimento. Ne sanno qualcosa, solo per citare alcuni nomi noti di un elenco sterminato, Silvio Berlusconi, Romano Prodi, Antonio Bassolino, Ottaviano Del Turco (come si vede, è sbagliato parlare di “toghe rosse”). Di fronte a risultati così deludenti, non sorprende che qualche pm tenda a privilegiare, nella scelta dei suoi obiettivi, personalità di maggior calibro istituzionale o legate a personaggi di rilievo nazionale. Siamo in un’epoca in cui intercettazioni e documenti coperti dal segreto istruttorio vengono pubblicati ad horas dalla stampa, e in cui l’apertura di un fascicolo o un avviso di garanzia non si nega a nessuno, soprattutto se ricopre o si candida a una poltrona di sindaco, di governatore, di ministro, di leader politico.

In questa palude melmosa sguazzano il populismo penale, i verdetti emessi dal tribunale della Rete, la tentazione che la “gente” si faccia giustizia da sé. Nel tempo in cui un manipolo di giacobini caricaturali si vanta senza pudore di una legge chiamata “spazzacorrotti”, è in buona misura questa l’odierna realtà repubblicana. “Coraggio, il meglio è passato”, recita un celebre aforisma di Ennio Flaiano. Infatti, il peggio è sempre dietro l’angolo in un paese in cui viene applaudito chi teorizza che è meglio un innocente in galera piuttosto che un colpevole in libertà. Come ha osservato un sociologo che sa il fatto suo, Mauro Calise, la vera cesura segnata dall’avvento della Seconda Repubblica riguarda proprio il riequilibrio dei poteri tra media e magistratura da una parte, e governo e Parlamento dall’altra. Complice (a sua insaputa) l’irruzione sulla scena politica di Silvio Berlusconi. Nel senso che la “santa alleanza” tra media e magistratura venne vista dalla sinistra superstite come l’unica diga residua allo strapotere del Cavaliere, scambiando un mutamento sistemico per uno spartiacque morale.

La situazione non migliora con la crisi del berlusconismo. Il combinato disposto dell’intervento dei pm e dell’alta visibilità offerta dalla stampa ai comportamenti dei politici incriminati ha sortito, nella maggioranza dei casi, scarsi risultati sul piano delle sentenze passate in giudicato ma un consistente quanto generico aumento del discredito nei confronti dell’intera classe politica. Né può essere sottovalutato il consenso crescente che ne è derivato per le forze che hanno investito fino all’ultimo centesimo del proprio patrimonio demagogico in un rialzo del listino del malaffare.

Sia chiaro, non sto affermando che la magistratura ha scelto consapevolmente di portare acqua al mulino del “partito giustizialista”. Una delle caratteristiche principali della sua azione, infatti, è la trasversalità, come dimostra la stessa richiesta al Senato di autorizzazione a procedere contro Salvini. E un trattamento non molto di riguardo, come dicevo, è stato riservato in passato anche a politici di spicco della sinistra da magistrati non necessariamente di destra. Anzi, in alcuni casi assurti a responsabilità di governo nel campo del centrosinistra (e con il sostegno di organi di stampa dell’area progressista). Forse l’unica motivazione comune a stampa e magistratura è la visibilità del bersaglio. In un contesto in cui il principio fondativo dell’autonomia e dell’indipendenza può sconfinare nell’irresponsabilità nei confronti dei circuiti della legittimazione popolare, il leader-sindaco, governatore, ministro- diventa il primo oggetto (o soggetto) della loro attenzione. Più è rilevante il suo ruolo, più forte è la tentazione di metterlo sotto tiro e sotto torchio.

Una cosa che negli Stati Uniti, culla della democrazia del leader, conoscono da molto tempo. Da qualche tempo abbiamo cominciato a conoscerla anche noi. E non c’è da stare allegri.