«Chi vive nella libertà ha un buon motivo per vivere, combattere e morire». In questa massima di Winston Churchill si può riassumere la vita di Enzo Tortora, quella di giornalista prima, di politico poi. E sullo sfondo la guerra: la seconda guerra mondiale per lo statista inglese, quella personale per Tortora. Una guerra vinta, la sua, che però gli ha provocato ferite mortali, nel fisico, non certo nell’anima. Enzo è rimasto fino alla fine un uomo perbene, morto il 18 maggio del 1988 a causa di una giustizia malata i cui sintomi non si sono voluti studiare e la terapia nemmeno ipotizzare.

Si dice che il caso Tortora sia sempre attuale. È vero. Ma l’attualità è degna del caso Tortora? È degna della sua grande e nobile battaglia per la giustizia giusta, che fu anche di Marco Pannella e dei radicali? A seguito delle nefandezze della procura di Napoli con Felice Di Persia e Lucio Di Pietro, c’era un Paese in grado di reagire e interagire. C’erano fior di quotidiani che scrivevano malvagità, infamie, con la firma anche di autorevoli giornalisti, ma che venivano letti e dibattuti. All’epoca c’erano Leonardo Sciascia, Enzo Biagi, Giorgio Bocca, intellettuali capaci di “sporcarsi le mani”: chi c’è oggi? Marco Travaglio!

Il direttore del maggior quotidiano governativo, il quale – consumata la sua “farmaceutica” dose di garantismo per se stesso e per qualche amico – etichetta tutti come colpevoli. A prescindere da ogni principio giuridico. E lo fa con la sicumera di chi – tronfio del proprio pensiero – non accetta critiche e repliche. Oggi abbiamo i social che intossicano il Paese: parole e immagini che uccidono la dignità, la reputazione, il buon nome di chicchessia e che sfociano nella sguaiatezza delle inchieste televisive. Programmi popolari e pomeridiani, rivolti alla famosa casalinga di Voghera che assume la verità mediatica come verità vera. E così l’esortazione volterriana “calunniate calunniate, qualcosa resterà” diventa indispensabile, un “must”. E di conseguenza, il garantismo non è più negoziabile.

Abbiamo una politica penale che vuole le carceri sempre più piene e gli avvocati sempre più silenti e sottomessi, perché, come dice il ministro Bonafede, non ci sono innocenti che vanno in carcere, ma – come precisa Pier Camillo Davigo – “solo colpevoli che la fanno franca”. Una politica che vuole i processi da remoto, violando il diritto alla difesa, che vuole abolire la prescrizione (un male necessario) violando il principio costituzionale della ragionevole durata del processo. Insomma, nonostante gli anni Ottanta abbiano siglato la vergognosa vicenda del maxiblitz napoletano, vero caso di macelleria giudiziaria, oggi mancano quelle munizioni capaci di neutralizzare questo diffuso populismo giustizialista. Banalizzando: se nell’87 ci avessero fatto il tampone sul giustizialismo saremmo risultati negativi. Non a caso in quell’anno il referendum sulla responsabilità civile dei magistrati fu vinto con oltre l’80% di sì, non a caso qualche anno prima lo stesso Tortora, agli arresti domiciliari e in attesa di giudizio, fu eletto al Parlamento Europeo con oltre 500mila voti di preferenza. Esprimendo, così, anche un giudizio di innocenza.

Oggi quello stesso tampone risulterebbe positivo al virus del giustizialismo, perché mancano gli anticorpi, manca la cultura. Manca la politica. Oggi mancano Tortora, Pannella, portatori sani di quella sacrosanta battaglia per la giustizia giusta. Oggi manca il coraggio della politica di convocare intorno a un tavolo tutte le parti in causa, magistratura, avvocatura e – perchè no – media, per la gestazione di una riforma non più rinviabile, destinata a ristabilire gli equilibri democratici e costituzionali. Oggi manca al Ministero della Giustizia una donna come Teresa Bellanova, capace di commuoversi per aver ottenuto una legge che difende il diritto e la legalità.

Giuliano Ferrara nella prefazione del libro che raccoglie le lettere inviate dal carcere, scrive: “… ogni tanto penso che morendo di passione e di dolore il tuo Enzo ha perso tutto, e si è perso a tutti, ma ha guadagnato l’oblio su quel che sarebbe accaduto”. E a noi che invece viviamo “quel che sarebbe accaduto”, con ancora maggiore tristezza, ricordiamo che sono passati 32 anni dalla morte di Enzo Tortora e 4 da quella di Marco Pannella e che, semplicemente, ci mancano.