Il 9 maggio del 1978 veniva trovato il corpo senza vita di Moro nel bagagliaio di una Renault 4 rossa, abbandonata in via Caetani, a conclusione di 55 giorni di prigionia da parte delle Brigate Rosse: uno degli episodi cruciali e più drammatici della storia della nostra Repubblica. Riparliamo di Moro prendendo spunto da un interessante articolo di un blog e da un libro utile e accurato. Nel blog Minima & Moralia Virginia Fattori si occupa di uno dei testi più belli di Leonardo Sciascia, L’affaire Moro, scritto nei giorni del sequestro. Dal punto di vista letterario si tratta di un felice ibrido tra pamphlet, diario in pubblico, reportage, meditazione morale.

Un esempio unico di filologia morale, scritto con una lingua riflessiva e acuminata, memore del Manzoni della Colonna infame, dell’esprit volterriano e della prosa labirintica di Borges. Com’è noto Sciascia fu uno dei pochi a difendere la autenticità delle lettere di Moro dal carcere (ben 97), insieme ai familiari, sfidando gli anatemi di Scalfari e Amendola, o la linea ufficiale dei capi democristiani. Certo lettere “condizionate” (dal contesto), ma moralmente e intellettualmente autentiche. A ben vedere tutti i personaggi di Sciascia si progettano come uomini in rivolta, dal capitano Bellodi del Giorno della civetta all’avvocato Di Blasi del (meraviglioso) Consiglio d’Egitto, dall’ispettore Rogas del Contesto fino allo stesso Moro in carcere, e tutti verranno ammazzati.

In rivolta contro che? Contro il potere, che proprio sulla morte – limite oscuro dell’esistenza – costruisce il suo spaventevole edificio di bugie e soprusi. Fattori osserva che Sofri, benché schierato dalla parte di quel libro, definisce Sciascia e Moro intellettuali meridionali, dunque disincantati, «poco fiduciosi nell’agire umano contro l’immanenza della realtà». Poi chiosa: eppure «chi potrebbe negare ad Aldo Moro l’assoluta fiducia nel riformismo della sua azione politica? E a Sciascia un’indiscutibile fiducia nell’azione letteraria, e nella sua capacità di influire sulla vita e sul potere?”. Giusto.

In Amare il nostro tempo. Appunti sul giovane Moro (Domani d’Italia) Lucio D’Ubaldo, ex senatore della Margherita e nella Dc vicino ai morotei, ricostruisce il pensiero dello statista a partire dalla formazione giovanile, a metà degli anni ‘40: originalità nella lettura della società italiana, tensione costante tra utopia e realismo, riformulazione personale di certi apporti (l’“umanesimo integrale” di Maritain diventa “cristianesimo umano”) e di categorie nate in ambiti diversi (il “postfascismo di Carlo Rosselli”, fondatore del movimento “Giustizia e Libertà”, come radicale riforma, morale e politica, della società italiana), e soprattutto l’idea che la politica “non deve essere una tecnica arida del potere, ma un omaggio reso quotidianamente alla verità e alla bellezza della vita” (enunciata nel 1977, tuttavia impregnata della formazione giovanile di Moro).

D’Ubaldo rivela la sua genuina vocazione di storico delle idee, totalmente a suo agio con la ricostruzione della filosofia cattolica che ispira gli orientamenti politici (ad esempio il ruolo di Del Noce e Rodano), ma anche con opere letterarie (sorprendentemente Il giovane Holden di Salinger), con Pasolini, con la teoria critica della società dei francofortesi e dell’epigono Marcuse. Indispensabile la meticolosa ricostruzione dell’atteggiamento dei cattolici e della Dc verso il ‘68, la comprensione delle sue istanze più radicali, il riferimento a un convegno delle Acli del 1967, con la critica della società opulenta che vi fu espressa. Ma non bisogna occultare la vera natura del libro di D’Ubaldo, il suo essere una proposta politica “militante” per l’oggi, un tentativo di rilancio del centrismo, a partire dal crollo della Dc dovuto a immobilismo e perdita di motivazioni ideali, e dal rifluire dei cattolici nell’“universo fluttuante della società civile”, tra volontariato e assistenza. E il centro si rilancia a partire da Moro (al di fuori di qualsiasi mitologia), dal suo appello (nel 1944) alla sensibilità di ogni cattolico, che “non può sopportare di convivere con l’ingiustizia”.

Concludo sull’Affaire Moro di Sciascia (purtroppo non citato da D’Ubaldo). Un libro non solo letterariamente sperimentale (virtuosistico montaggio d’autore di materiali giornalistici) ma a suo modo “religioso”, intriso di pietas e conoscenza dell’animo umano, che volle denunciare lo “stalinismo” delle Brigate Rosse e anche del “partito della fermezza” e insieme difendere la dignità offesa di Moro. Sciascia volle mettersi dalla parte di Moro, e poi di Enzo Tortora, dalla parte degli inermi e degli indifesi, di chi ha paura e viene calunniato, in nome della parte di infermità e debolezza che è cristianamente in ogni essere umano.