Aveva 81 anni
Addio Luciano Pellicani, il guru liberal di Craxi che ispirò la svolta del Psi

Con Luciano Pellicani, morto a Roma sabato scorso all’età di 81 anni, abbiamo perso un grande studioso, autore di opere che resteranno nella letteratura scientifica, ma anche un uomo impegnato politicamente (con scarsa fortuna) e che era, con le sue idee, un monito alla sinistra italiana per quello che avrebbe poturo essere e che non è mai stata.
Gli argomenti di studio di Pellicani, che era un sociologo con forti interessi storici e comparativistici, e che sapeva unire la competenza filologica alle grandi visioni d’insieme, ruotavano, tutto sommato, attorno a pochi perni. Prima di tutto, il problema de La genesi del capitalismo e le origini della modernità (1988), che secondo lui doveva essere affrontato chiedendosi perché solo in Occidente sia avvenuta negli ultimi secoli una trasformazione sociale, economica, culturale, così profonda e rapida.
In disaccordo con le tesi di Karl Marx e di Max Weber, Pellicani riconduce il nostro sviluppo economico e tecnologico a un sistema politico-istituzionale ereditato dal Medioevo, policentrico e pluralistico. La mancanza di un potere politico centralizzato ha così permesso, come aveva intuito Adam Smith, una concorrenza di idee e beni, modelli culturali e politici, che, nel clima ideale della “società aperta”, hanno permesso, attraverso una sperimentazione sul campo, di trovare le risposte migliori alle domande e alle esigenze umane (Dalla società chiusa alla società aperta, 2002). I segreti e la difesa della “società aperta”, e dell’Occidente come luogo di elezione, diventano a questo punto gli oggetti di studio e di impegno politico di Pellicani. Che si concretizza in libri che sono contemporaneamente di ricerca analitica e rigorosa e di battaglia politica: Le Modernità e secolarizzazione (1997), Le sorgenti della vita (1997), Anatomia dell’anticapitalismo (2010), L’Occidente e suoi nemici (2015), Le sorgenti della vita.
Pellicani era fondamentalmente un liberale, anche se si definiva, per l’attenzione che prestava alle garanzie e alle protezioni sociali, e sicuramente anche lo era, prima di tutto un socialista. Era naturale che egli dovesse incontrarsi con Bettino Craxi, della cui “svolta” politico-culturale fu forse il massimo ispiratore con il famoso articolo che nel 1978 comparve su L’Espresso e che è passato alla storia come quello in cui il leader socialista anteponeva alla figura di Marx quella del più accanito dei suoi avversari: il socialista libertario francese Pierre-Joseph Proudhon (recentemente quell’articolo, con gli interventi più significativi nel dibattito, è stato ripubblicato da Aragno con il titolo originale di “Il vangelo socialista”). Per Pellicani si trattava infatti di far capire come il socialismo doveva estendere le libertà liberali e non rinnegarle in nome di una chimerica libertà collettiva.
In più esso doveva conciliarsi con il capitalismo, che andava sì corretto ex post ma che era pure da considerarsi come il sistema più efficace per produrre ricchezza inventato dall’umanità nella sua lunga storia. Da questo punto di vista, il bolscevismo non era stato l’applicazione cattiva di un’idea buona, quella marxista, ma la messa in pratica di un’idea che, con i suoi caratteri dirigisti e totalitari, era malata sin dall’origine (Lenin e Hitler. I due volti del totalitarismo (2009), Cattivi maestri della sinistra. Gramsci, Togliatti, Lukacs, Sartre (2017). In questa visione rigorosamente anticollettivistica di Pellicani, giocava un ruolo anche la scoperta degli autori del’individualismo metodologico che fu propria di tutti quei pensatori che si ritrovarono allora, negli Ottanta e Novanta del secolo scorso, in Luiss, a cominciare da Dario Antiseri.
In quell’ideale cenacolo intellettuale, senza badare a logiche di potere, poteva allora succedere che si discutesse animatamente e polemicamente e poi ci si ritrovasse amici al ristorante. L’editore Rubbettino, che ha pubblicato la più parte dei libri di Pellicani, rappresentò la perfetta sintesi di questo clima intellettuale favorevole alla cultura. La fiducia nella scienza e nel metodo scientifico, il rifiuto del cristianesimo e un certo anticlericalismo di tipo ottocentesco (Dalla città sacra alla città secolare, 2011) l’illuminismo positivistico che sfociava addirittura in una certa adesione alla prospettiva transumanistica del suo allievo Riccardo Campa, erano altri elementi non irrilevanti della sua personalità scientifica.
Non meraviglia che, da difensore dell’Occidente, egli abbia interpretato l’islamismo politico come una trasposizione in ambito islamico della mentalità gnostica che secondo lui era propria dei rivoluzionari occidentali (Jihad. Le radici, 2015). Ove per gnosticismo politico è da intendersi una visione del mondo manichea e faziosa che vuole dividere il “bene” dal “male” e “depurare” il mondo dai “cattivi” (La società dei giusti. Parabola dello gnosticismo rivoluzionario (1995). Nel suo ultimo libro, I difensori della libertà (2018), troviamo una sorta di pantheon dei suoi autori di rifermento: Benedetto Croce, Guglielmo Ferrero, José Ortega y Gasset, Simone Weil, Raymond Aron, Friedrich von Hayek, Norberto Bobbio, Giovanni Sartori. La morte lo coglie nel pieno di un progetto di una storia del progresso, che lui, con dati empirici, voleva dimostrare essere avvenuto nella storia dell’umanità. Del socialista Pellicani aveva forte la fede nel futuro e in una seppur laica idea di speranza.
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