Corrado Ocone ha descritto tutta la complessità della figura di Luciano Pellicani come studioso e anche come intellettuale socialista. Chi vuol fare i conti davvero con Luciano Pellicani deve misurarsi con un percorso che va dalle riflessioni sulle origini del capitalismo ad un’analisi sui totalitarismi contemporanei come quella contenuta nel libro su Hitler e Lenin, per concludersi con un’opzione per un socialismo liberale al fondo contestativo dello stesso Marx (vedi il suo dibattito con Virgilio Dagnino).

Luciano Pellicani aveva in mano tutti gli attrezzi del mestiere per svolgere un ruolo di grande rilievo nel nucleo di intellettuali socialisti che ha dato vita alle fasi più creative di Mondo Operaio. Di fatto questo nucleo, per dirla con Gaetano Arfè, a un certo punto prese d’infilata la cultura comunista, fino ad allora titolare di una egemonia incontrastata, e lo fece in una fase che già era di ripiegamento. Ecco, per una sorta di scherzo della storia e del destino, questo esercizio creativo di eresia ideologica si incontrò con Bettino Craxi che, nel tentativo prima di far rivivere e poi di rilanciare un partito in decadenza, scelse la strada dell’eresia politica, incontrando su quella via anche gli autonomisti di sinistra quali erano i lombardiani.

Questa eresia politica si basava sulla contemporanea contestazione del conservatorismo democristiano nella gestione del potere e nel conservatorismo ideologico del Pci, nell’esercizio dell’egemonia sulla sinistra. Craxi, però, aveva la piena consapevolezza che non c’era possibilità di rilancio politico senza una fortissima e innovativa iniziativa culturale. Nel 1978 Craxi aveva alle sue spalle il Congresso di Torino, vinto insieme alla sinistra lombardiana avendo come piattaforma il “progetto socialista”. Poi sfidò tutto l’establishment del Paese, anche quello più torbido, facendo sua la battaglia per la vita di Aldo Moro contro la durezza dello Stato etico. Craxi passò incolume attraverso i rischi di una battaglia durissima durante la quale già allora poteva lasciarci la pelle, vinse le elezioni amministrative di maggio e prese d’infilata la Dc e il Pci sull’elezione del presidente della Repubblica, portando a quella carica Sandro Pertini.
Fra una battaglia politica e un’altra si arriva al giugno del 1978.

A quel punto gli intellettuali socialisti pensarono bene di fare uscire due numeri di Mondo Operaio dedicati alla demistificazione di Palmiro Togliatti. Da Galli della Loggia a Bedeschi, a Cafagna, a Giorgio Bocca fu un fuoco di fila nel quale si mescolavano le bombe a mano con il tiro di fucili di precisione. La tesi di fondo di Galli della Loggia era che nei Paesi avanzati e sviluppati dell’Europa si era affermata la socialdemocrazia e che solo in un Paese arretrato come l’Italia poteva allignare il togliattismo, versione ambigua e trasformista del comunismo. Per il Pci la misura era colma, la valutazione di fondo era che si trattava di un’operazione assai pericolosa: un mutamento genetico di un “partito operaio” che passava dal marxismo alla liberaldemocrazia.

Nelle retrovie del berlinguerismo Antonio Tatò preparava le munizioni: in un promemoria del 18 luglio del 1978 a Berlinguer egli scriveva: «I paesi socialisti sono superiori ai Paesi con governi socialdemocratici. L’Urss è comunque superiore alla socialdemocrazia. Se non crediamo più a questo, se neghiamo questo significa che facciamo nostro – noi comunisti – il giudizio non solo manicheo, ma reazionario secondo cui la storia e la realtà sovietica sono state e sono un errore, che abbiamo sbagliato a nascere, che dobbiamo riassorbire la scissione del 1921 e che l’Urss e il resto sono soltanto dei mostri».

Questo appunto dà il senso preciso del cul de sac in cui si era cacciata la posizione del comunismo berlingueriano, costretto a negare una realtà già evidente in nome dell’ideologia e “della boria di partito”. Tatò così sfogava il risentimento accumulato contro gli intellettuali socialisti: «Intellettuali un po’ cialtroni, un po’ “baroni”, novatori pur che sia, anticonformisti per civetteria, fragili, pronti ad ogni moda, già venduti o in vendita, che sono protesi a far credere che esista, grazie a Craxi e alla sua lotta contro il compromesso storico e l’eurocomunismo, la possibilità di un rilancio e di una supremazia della nuova cultura socialista» (in Caro Berlinguer, pag. 79-83, Einaudi, 2003). A quel punto, Berlinguer nel mese di agosto caricò a testa bassa prima in difesa del leninismo, della superiorità dei Paesi socialisti, e poi contro il Psi.

Berlinguer fu preso da una sorta di “cupio dissolvi”, ruppe con Moro e il moroteismo ed entrò in una totale rotta di collisione con i socialisti e dal 1980 in poi visse in condizioni di totale isolamento politico. Un leader comunista lungimirante avrebbe dovuto in un certo senso misurarsi con il Psi e con lo stesso Craxi, prendendoli in parola sulla strategia dell’alternativa e spingendo l’eurocomunismo verso il revisionismo più spinto. Invece Berlinguer fece tutto il contrario. Egli si arroccò sulla linea della contrapposizione al Psi, sulla base di un conservatorismo ideologico assai arcigno, arrivando a difendere un leninismo oramai puramente simbolico e ideologico, perché dalla svolta di Salerno in poi la linea del Pci non aveva nulla a che fare con il nocciolo duro del leninismo che consisteva appunto nella strategia della presa violenta del potere.

In quel fatale agosto 1978 così Berlinguer rispose ai socialisti: «A me sembra del tutto vivente e valida la lezione che Lenin ci ha dato elaborando una vera teoria rivoluzionaria, andando cioè oltre l’ortodossia della evoluzione riformista». Quanto al Psi disse: «Il socialismo italiano non ha costruito una sua cultura pienamente autonoma dalle correnti borghesi né una sua autonoma strategia di cassa. È stato un possente movimento che, cent’anni fa, risvegliò per primo la coscienza dei proletari e mise in moto un grande processo di liberazione umana e politica. Questa è la sua grandezza, purtroppo […] mancò al partito Socialista una elaborazione culturale adeguata».

Specie la frase finale per Craxi fu un invito a nozze: si trattò di una provocazione da cogliere al volo perché gli consentiva di dare una globale cornice ideologica alla sua iniziativa politica che così acquisiva la dignità di essere, nella sinistra, il polo opposto a quello comunista-leninista: il polo socialista-liberale-pluralista-democratico-autogestionale. Craxi veniva dalla gavetta, era un uomo di partito e di apparato, ma aveva una marcia in più rispetto ai normali “professionisti della politica” perché aveva il senso preciso dell’importanza decisiva della cultura, dei messaggi ideali, dei progetti per il futuro.

Da qui nacque la scintilla che provocò l’incontro fra lui e Luciano Pellicani. Parliamoci chiaro: Il Vangelo socialista se fosse stato reso pubblico con la firma di Pellicani sarebbe stato un saggio molto pregevole, nel momento in cui diventò l’exploit culturale del nuovo segretario socialista fu un’autentica bomba. Il Vangelo socialista, testi alla mano, tracciava in modo assai netto l’alternativa esistente fra l’organico totalitarismo insito nel leninismo di cui lo stalinismo era una logica conseguenza e il pluralismo culturale, politico, economico e sociale insito nel socialismo liberale.