Quando Licio Gelli fece trovare i suoi dossier a Villa Wanda, giusto 40 anni fa, scoppiò un tale scandalo da scuotere le fondamenta della democrazia italiana, tanto da provocare un deciso intervento pubblico del Presidente della Repubblica Sandro Pertini, da far cadere un governo, da troncare la tradizione del presidente del Consiglio sempre democristiano e da portare il primo presidente laico a Palazzo Chigi. Oggi – di fronte alle dichiarazioni pubblicate dall’ex potentissimo magistrato Luca Palamara – ci troviamo in una situazione ancora più grave, perché appare coinvolto e protagonista della sovversione addirittura uno dei corpi dello Stato.

Quel che accade è sotto gli occhi di tutti: il magistrato Palamara, ex membro del Consiglio Superiore della Magistratura, ex capo della associazione magistrati, (cacciato, dopo un processo sommario, nel tentativo di ridurlo al silenzio) ha messo nero su bianco quel che sa in un libro intervista con Alessandro Sallusti. Citando date, fatti, nomi e cognomi, descrivendo gran parte del marcio che si annida in settori della Magistratura che, stando a Palamara, avrebbero agito e tuttora agirebbero contro la Repubblica, contro la Costituzione, contro la giustizia e contro il Parlamento.

Abusando delle garanzie previste a protezione dei cittadini e non a vantaggio di funzionari statali che devono la loro carriera a un concorso pubblico e agli avanzamenti previsti dall’organo di autocontrollo, il Consiglio Superiore della Magistratura con sede nel Palazzo dei Marescialli in piazza Indipendenza. Già una volta un presidente della Repubblica fece schierare in quella piazza, all’alba, un reparto di Carabinieri in tenuta antisommossa per intimare l’obbedienza costituzionale a un gruppo di insorti togati (membri del Csm) non meno sovversivi di quelli che il sei gennaio scorso a Washington hanno dato l’assalto al Parlamento americano con l’intenzione di scoperchiarlo come una scatola di tonno. Nel 1981, per cercare di capire come avesse funzionato la Loggia massonica P2, governata da Licio Gelli, fu messa in piedi una commissione parlamentare di inchiesta (la celebre commissione Anselmi) che lavorò per anni, seguita con grande attenzione dai mass media. Non è il caso, oggi, di fare quantomeno la stessa cosa, per restituire al parlamento qualcuno dei suoi poteri e per capire cosa sta succedendo nella magistratura italiana, ormai fuori da ogni controllo democratico?

Del funzionamento di una Commissione parlamentare d’inchiesta ho viva memoria essendo stato dal 2002 al 2006 presidente di una Commissione bicamerale (venti senatori e venti deputati) per indagare sulle attività degli agenti di influenza sovietici in Italia dai tempi della Guerra fredda. Quella Commissione portò a termine il suo lavoro glacialmente ignorato da tutte le televisioni e sottoposto a fabbricazioni e trappole che si conclusero con l’avvelenamento, davanti agli occhi stupiti del mondo intero, dell’informatore Alexander “Sasha” Litvinenko, assassinato a Londra con una dose mortale di polonio radioattivo.

Sono passati quindici anni. Ma posso ricordare come funziona una procedura del genere. Il primo elemento indispensabile anche se non sufficiente, è la volontà politica di farla, una tale commissione, dopo aver preso atto che un’area crescente di minacciose illegalità si è allargata a partire dagli anni Ottanta e che quel marciume ha minacciato, intimidito, anestetizzato e corrotto il primato del Parlamento. Dopo questo primo passo, occorre scrivere e presentare una legge, o di iniziativa parlamentare o persino per iniziativa popolare, come ogni legge. Quando il Parlamento eletto nel 2001 decise di votare una legge che istituisse una Commissione d’inchiesta sul “Dossier “Mitrokhin” (dal nome dell’archivista russo che consegnò tutte le sue memorie al governo inglese, il quale le passò poi ai Paesi alleati fra cui l’Italia), le aule di Camera e Senato esaminarono diverse proposte di legge di destra e di sinistra che erano in parte già state depositate alla fine della legislatura precedente.

La discussione parlamentare in quel caso fu lunga e feroce: un anno di battaglie senza esclusione di colpi, ma aveva una base concreta che non consisteva tanto nel “dossier” che uno sconosciuto maggiore Vasilij Mitrokhin aveva messo insieme copiando per trent’anni con un sistema cifrato i documenti che gli erano passati per le mani e che svelavano le attività di numerosi “agenti di influenza” (da non confondere con le spie, che sono modesta manovalanza), ma consisteva nella volontà politica anche all’interno dell’ex Partito comunista di chiudere una partita tra filorussi e filoamericani e di cicatrizzare spesso occultandole, molte vecchie ferite. Furono giornate di baraonda e violente emozioni sia alla Camera che al Senato, ma alla fine la legge venne fuori, i partiti scelsero i commissari che avrebbero partecipato ai lavori della Commissione, perché tutti i partiti allora esistenti furono rappresentati in maniera proporzionale in un Parlamentino cui fu assegnata una sede conveniente nel Palazzo delle Commissioni in via del Seminario fra il Pantheon e piazza Sant’Ignazio, nello stesso massiccio edificio che aveva ospitato la Santa Inquisizione e dove era stato interrogato, minacciato e costretto ad abiurare Galileo Galilei.

Nello stesso Palazzo, che appartiene al Senato, sono quasi tutte le commissioni d’inchiesta e molte commissioni permanenti come quella della vigilanza Rai. Io ero stato eletto senatore a Brescia per Forza Italia e quando si riunì per la prima volta la Commissione d’inchiesta presieduta provvisoriamente dal commissario più anziano, che si chiamava Giulio Andreotti, furono indette le votazioni di rito per tutte le cariche e io fui eletto presidente cominciando un lavoro della cui enormità e delle cui conseguenze non ero ancora in grado di rendermi conto. Che cosa fa una Commissione d’inchiesta? È un tribunale? Uno strumento di ricerca storica? Con quali poteri e quali limiti? Le risposte a queste e altre domande le deve dare il Parlamento che discute e approva la legge: quella è la road-map della Commissione che però ha anche poteri di intervento che la mettono nelle condizioni di agire come un giudice.

Dunque una Commissione d’inchiesta che indagasse sul mondo marcio e minaccioso prospettato dal giudice Palamara dovrebbe essere equipaggiata dalla legge che la istituisce in modo tale da poter fronteggiare i nemici della Repubblica con armi legittime e adeguate, purché sia chiaro in partenza un solo principio: il primato del Parlamento su ogni altro potere, poiché in una Repubblica democratica parlamentare tutto il potere che appartiene al popolo viene delegato per intero ai rappresentanti, motivo per cui non ne avanza neanche un millimetro o un grammo. In genere a questo punto saltano fuori coloro che ripetono che i poteri sono tre, come ai tempi di Luigi XVI, del re, del clero e del Terzo Stato. Ma non è così: in una democrazia i poteri appartengono al Parlamento secondo quel manuale d’istruzioni che ne stabilisce limiti e modalità e che si chiama Costituzione, con un presidente che ha il compito di garantire la perfetta applicazione delle regole.

Ma la Magistratura non è un potere, visto che i suoi “clerk”, i funzionari, sono legittimati da un concorso pubblico e avanzano secondo un sistema che nelle intenzioni era stato concepito non per privilegiare i magistrati, ma per privilegiare i cittadini affinché fossero protetti dalla minaccia di giudici non indipendenti. Ciò che già era emerso decine di volte e che adesso Palamara conferma con date, nomi e fatti, sembra certificare il contrario: una parte dei “clerk”, dei funzionari, hanno affinato poteri e privilegi abusivi con cui comandano sia sugli altri giudici che sulla politica, l’economia e l’informazione. E naturalmente su tutti i cittadini che inquisiscono e che giudicano, non sappiamo più con quali criteri.

Sappiamo che questa proposta non passerà. O non passerà subito. Assisteremo a ondate di spalle scrollate e di sguardi di compatimento, a derisioni e minacce. Tutto previsto. Ma il cammino per la rigenerazione della cadaverica democrazia italiana può partire solo da lì: dal ripristino della legalità repubblicana nella magistratura, e dalla liberazione della democrazia dal tiranno. Si tratta, come ognuno può vedere, di una vera guerra di liberazione che potrà essere vinta soltanto se le parti sane della democrazia sapranno schierarsi e battersi.

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Giornalista e politico è stato vicedirettore de Il Giornale. Membro della Fondazione Italia Usa è stato senatore nella XIV e XV legislatura per Forza Italia e deputato nella XVI per Il Popolo della Libertà.