Ogni struttura complessa soffre la difficoltà di mitigare il carrierismo interno e la competizione tra i propri componenti. Società private e organizzazioni pubbliche devono confrontarsi quotidianamente con la necessità di incentivare e dosare le ambizioni di carriera di molti, tenendo presente un unico imperativo categorico: evitare conflitti permanenti perché questi, alla fine, sfibrano le imprese o rendono ingovernabili gli uffici. Un’operazione di governance complessa che si avvale di esperti, di competenze, di una stretta vigilanza e, quando possibile, di regole che mitighino il pericolo che la cooptazione sia il solo strumento di selezione delle élite.

Persino la più cooptante delle istituzioni – in quanto fondata su una chiamata rivolta a un piccolo nucleo di apostoli – deve fare i conti con questa drammatica realtà: «Fuggite dal carrierismo, è la vera peste della Chiesa» ha ammonito Papa Francesco nell’aprile 2017, certo consapevole della promozione, duemila anni prima, di un mite pescatore a capo della Chiesa universale. Ovvietà si potrebbe dire. Ma come tutte le ovvietà non si può nascondere che anche questa necessiti di una propria esplicitazione quando si guardi a una singola situazione (D. Farias, L’ermeneutica dell’ovvio, 1990).

Il pasticcio costituzionale e legislativo che ha segnato le sorti ultime della magistratura italiana si fonda tutto su questa drammatica ovvietà. La regolazione delle carriere è stata polverizzata nei suoi fondamenti costituzionali e consegnata, tutta, nelle mani delle correnti dell’Anm ancora oggi, dopo circa due anni, incapaci di trovare una soluzione che non sia il vacuo richiamo a una velleitaria svolta morale. Capi corrente che ora, se potessero, griderebbero pure quell’ “Aridatece er puzzone” che urlavano i romani nel giugno del 1944 delusi dall’arrivo dei liberatori. Il vuoto, a tratti evidente, lasciato dalla cacciata dal tempio del dottor Palamara è solo l’anticamera di quell’incolmabile abisso generato dallo stravolgimento delle regole costituzionali su cui si era inteso erigere il potere giudiziario in Italia. Regole, sia chiaro, tutt’altro che chiare, frutto di un compromesso della Costituente che dovrebbe oggi essere ampiamente riscritto, ma al quale nessuno osa metter mano.

Come negare la contraddizione, pratica e ideologica, tra l’articolo 105 della Carta – per il quale «spettano al Consiglio superiore della magistratura … le promozioni» dei magistrati – e l’articolo 107 secondo cui «i magistrati si distinguono fra loro soltanto per diversità di funzioni». Un apparato immaginato senza promozioni così come oggi intese, concepito senza un potere gerarchico, un plesso del tutto pulviscolare perché solo così provvisto di quell’autonomia e indipendenza che sono i cardini della giurisdizione (articolo 104). Quelle «promozioni» suonano oggi come una grossolana sgrammaticatura del Costituente, ancora troppo condizionato dalla struttura della magistratura monarchica e fascista. Una distorsione lessicale e concettuale che dovrebbe essere emendata perché pericolosa nella descrizione delle funzioni dei magistrati e perché del tutto inutile essendo sufficienti, per la designazione dei capi degli uffici, le mere «assegnazioni» di cui parla sempre l’articolo 105.

Quelle «promozioni» hanno suscitato pulsioni inappropriate, se non quando illegali o addirittura illecite. In nome di un modello organizzativo efficientista – non previsto dalla Costituzione in alcuna sua parte tanto da lasciare al ministro della Giustizia «l’organizzazione e il funzionamento dei servizi relativi alla giustizia» (articolo 110) – si è immaginato che vi fosse la necessità di manager, di organizzatori, di direttori, di capi insomma, di gente con un consenso correntizio. Mentre il modello costituzionale era, deliberatamente o meno, votato alla completa inefficienza, costruito come era su un sacerdozio che cesellava singole sentenze in vista «del progresso morale, civile e sociale. A tale intento la magistratura darà, come sempre ha dato, il fervido contributo della sua opera, frutto; non solo dello studio assiduo delle leggi, ma del travaglio quotidiano di coscienze diritte e severe che, al di sopra del contrasto pur fecondo delle passioni, adempiono all’ufficio di tracciare, fermamente e serenamente, la via del giusto e del vero», non a caso ricordava Giovanni Macaluso, avvocato generale della Cassazione, all’inaugurazione del 5 gennaio 1948, pochi ore dopo l’entrata in vigore della Costituzione.

Il Costituente con l’obbligatorietà dell’azione penale, con l’accesso senza filtri alla Cassazione, con il contraddittorio a largo compasso, con la parità processuale, con l’obbligo della motivazione, con la costruzione di un ordine giudiziario senza carriere come detto e con mille altre indicazioni (per carità una per una condivisibili, ma messe insieme un mix letale) ha costruito un modello di magistratura totalmente destinato all’inefficienza, alle lentezze, ai ritardi. Inefficienza che, infatti, ne connota l’intera storia repubblicana che non ha mai visto anni giudiziari inaugurati all’insegna delle conquiste organizzative e della soddisfazione dei cittadini. Un assetto di questo genere – che voleva garantirsi dai soprusi fascisti assegnando il massimo di autonomia e di libertà per ciascun giudice a scapito di un’efficienza che diveniva irraggiungibile – era vocazionalmente e ineluttabilmente destinato al fallimento organizzativo, alla scarsa produttività. Eppure qualcuno ha immaginato di poter innestare, su un corpo geneticamente incompatibile, l’imbroglio della ragionevole durata del processo (2001) e dei conseguenti protocolli manageriali e di coazione verticistica che hanno trasformato le «promozioni» – non sempre ma troppe volte – in posti di potere e in luoghi di gestione opaca delle funzioni, soprattutto inquirenti.

Un primo punto deve essere chiaro: tutti coloro che orbitavano nell’universo delle carriere descritto dal dottor Palamara non ambivano a incarichi per ragioni economiche. Contrariamente a quanto accade ovunque, nel pubblico come nel privato, a una “promozione” non corrisponde alcuno scatto stipendiale. Non un euro in più è entrato nelle tasche di Tizio nominato procuratore al posto di Caio o di Sempronio. La progressione economica prescinde dalle funzioni esercitate. Quindi la competizione era solo ed esclusivamente per il potere o, nei casi più innocenti, per il prestigio. Mai emerge, a dire il vero, che qualcuno abbia sgomitato, brigato o intrallazzato perché desideroso di poter affermare la propria visione ideale della giustizia o un proprio modello di organizzazione che giovasse ai cittadini. Mai nessuno che in una chat abbia scritto: «Sai se mi piazzi in quel posto vedrai che risultati avranno i cittadini».

Non c’è traccia, che si sappia, di un tale zelo o di una tale ansia riformatrice. Per carità, esistono tanti e tanti dirigenti che hanno effettivamente a cuore le sorti della giustizia loro affidata, ma sono la cifra oscura del sistema di potere descritto dal dottor Palamara, nelle pagine del suo racconto costoro semplicemente non esistono o compaiono come le vittime della macchina infernale. Non appaiono in migliaia e migliaia di chat o nelle migliaia di conversazioni che le avranno precedute e seguite e delle quali, ovviamente, non c’è traccia in questa tragicomica Odissea della magistratura italiana che non ha un’Itaca cui ritornare, perché priva di una patria costituzionale che la possa riconoscere per come è diventata.