L’affaire Palamara, non meno delle dichiarazioni del Procuratore Gratteri, hanno marcato gli ultimi tempi sul fronte della questione giustizia. Due vicende che apparentemente non hanno punti contatto, e che sembrano lontane dall’agenda politica del nuovo governo, ma in realtà non è così. Partiamo dalla prima, già nota ma rilanciata dalla pubblicazione del libro intervista Il sistema.

Al riguardo va subito sgomberato il campo da un equivoco: chi prende spunto dai fatti narrati da Palamara a Sallusti non per questo deve darli tutti per assodati, visto che i chiamati in causa, e sono molti, hanno tutto il diritto di sottolineare che la versione di Palamara non è il verbo. Allo stesso tempo, però, vale anche il contrario: francobollare il libro come “una memoria difensiva”, e per ciò stesso non solo come un contributo di parte, come è ovvio, ma anche di per sé sospetto di falsità perché viene da un accusato, dimostra una (in)cultura, assai diffusa, per la quale non solo un indagato è un presunto colpevole ma quel che dice falso per definizione. Tra gli alfieri della seconda opinione si ritrova l’associazione sindacale della magistratura, che ha bollato con “sdegno” il contenuto del libro, per una volta in compagnia, e questo è invece sorprendente, anche di voci dell’avvocatura che, con l’aria di saperla lunga, hanno ritenuto sbagliato persino farlo parlare.

Io ritengo che di fronte alla straordinaria gravità di alcuni di quei fatti – quelli riguardanti lo sviamento della giurisdizione e l’alterazione dei suoi esiti, a parte il funzionamento del Csm – l’unica reazione legittima sarebbe quella di accertarli. Del resto, assistendo al dibattito, capita spesso di registrare affermazioni un po’ surreali come il paragone tra Palamara e Buscetta che viene avanzato sia dai suoi supporter che dai suoi avversari. Il succo sarebbe che Palamara è un pentito e che, quindi, le sue parole valgono quel che valgono: per gli estimatori sono oro colato perché vengono dall’interno della magistratura; per gli avversari, oltre che messaggi di dubbia natura, sono sospette perché servono a guadagnare l’immunità in vista di un futuro ingresso in politica.

Il bello è che tra quelli che sostengono il verbo palamaresco “a prescindere” si ritrovano alcuni che sui pentiti hanno sempre avuto una visione critica, mentre tra quelli che lo avversano dandogli icasticamente del “pentito” si ritrova quella fetta di magistratura che sulle parole dei collaboratori di giustizia ha costruito carriere, o tentato di riscrivere la storia di Italia, non sempre con esiti giudiziari confortanti. Paradossi del Bel Paese, dove la coerenza è la virtù degli imbecilli e il trasformismo una dote di governo. Ora, che il libello di Sallusti e Palamara abbia diversi punti di caduta a me pare evidente, soprattutto quando, attraverso una visione che pone al centro se stesso e i suoi consorti della magistratura, l’ex leader dell’Anm legge diversi episodi solo dal buco della serratura del Sistema facendo torto a figure come Napolitano o D’Ambrosio; oppure quando mette sullo sfondo protagonisti centrali, come Ferri e la sua corrente di Magistratura Indipendente; o ancora quando relega la promiscuità opaca con il sistema dei partiti alla sola sinistra giudiziaria.

Tutte cose che chi segue la vita del Csm non può che ritenere discutibili. Per non parlare della beatificazione di Ingroia e de Magistris e Di Matteo, le cui vicende semmai dimostrano che il mitico Sistema, come un orologio rotto due volte al giorno, ogni tanto c’azzecca. Ancora più discutibile, assai discutibile, pare poi circoscrivere la predisposizione della magistratura ad un utilizzo orientato del potere di azione, come se fosse un attributo esclusivo della sinistra giudiziaria. Palamara all’epoca andava al liceo ma se avesse interpellato protagonisti politici degli anni settanta o ottanta avrebbe scoperto che la storia viene da lontano. Come viene da lontano la concezione proprietaria della giustizia che l’Ordine Giudiziario riafferma da decenni e che, tanto per fare un esempio, ha finito per identificare persino un sindacato, cioè l’Anm stessa, con il Potere Giudiziario ovvero permesso diktat al parlamento sulle leggi sgradite. Per informazioni basta chiedere a Boato.

È questo il punto centrale che il libro racconta e che, al di là degli episodi, costituisce il nodo della vicenda, che non può essere liquidato, con sdegno o con degnazione, dalla magistratura. La quale, sia detto senza recare offesa ai molti, moltissimi, magistrati che lavorano sodo e non fanno la questua correntizia anche per uno strapuntino in qualche ufficio periferico, deve riconoscersi perlomeno responsabile di aver mantenuto in vita un sistema di potere interno che, molto più dei condizionamenti esterni, ha posto in pericolo il requisito della indipendenza dei singoli magistrati. Insomma, non è possibile liquidare la vicenda come il racconto di un Bel Ami che scala i vertici di un potere giudiziario illibato ed adamantino in cui la platea degli elettori, in perfetta buona fede e senza neppure sospettare come sarebbe stato svolto, affidava lo sporco lavoro del clientelismo ai rappresentanti delle correnti. Come dire che gli italiani che hanno votato per cinquanta anni Dc ignoravano il sistema clientelare sul quale quel partito prosperava.

Chi cerca di accreditare questa versione, quella del “Palamara colpevole Magistratura inconsapevole” fa torto prima di tutto alla intelligenza dei magistrati italiani. Anche perché, a dire il vero, il pamphlet del nostro segue altre pubblicazioni, come l’Ultracasta di Stefano Livadiotti – firma dell’Espresso non sospetta di collusioni berlusconiane – pubblicato nel 2010, oppure le analisi di Giuseppe di Federico, che quel sistema lo avevano già descritto anche nelle sue miserie. Come negli stessi termini, e dal di dentro, nel libro Toga Rossa, molti anni fa, Francesco Misiani rivelava anche l’altro corno del problema, quello più importante a mio modo di vedere: lo strapotere delle Procure all’interno della magistratura, nel processo e in definitiva nel Paese. Perché questo è il tema vero che pone oggi il libro di Palamara, anche se la sua è una versione interessata e segnata dalla sua attuale condizione.

Su questo il suo racconto combacia con la denuncia che altri fanno da tempo – l’avvocatura penale italiana, tanto per dire, lo dice da decenni – e serve a poco gridare dagli all’untore. Il che porta anche all’altro fatto che ha tenuto banco nei giorni passati, cioè le dichiarazioni del pm Gratteri sulle quali, al di là di una difesa di categoria fatta in automatico dal Presidente di Anm, ci si attendeva una riflessione da parte del parlamentino dell’associazione, che invece è mancata. Una riflessione incentrata, ovviamente, sul ruolo che Procure e Procuratori hanno assunto nel dibattito pubblico, tanto sulle singole vicende giudiziarie che sui temi di politica giudiziaria. Un ruolo che esonda dall’alveo segnato nella Costituzione a proposito della magistratura inquirente, e che, non a caso – da ancor prima di tangentopoli – si fonda sul rapporto diretto ed esclusivo con gli organi di informazione alla ricerca di un consenso ed un sostegno popolare all’esercizio dell’azione penale che è la negazione del Giusto Processo.

Ciò anche perché passa per l’innaturale propaganda delle attività delle Procure, di cui l’esibizione sui media, come selvaggina catturata, degli indagati raggiunti dalle ordinanze di custodia cautelare – con corredo di illegittima ed anticipata pubblicazione di atti, intercettazioni, e persino foto segnaletiche senza alcuna necessità – è l’iconica raffigurazione della inciviltà del sistema. Ecco, questo è uno dei temi su cui la politica italiana, nel momento in cui affronta un passaggio epocale, dovrebbe interrogarsi. L’Europa non guarda all’Italia solo come il paese dai processi interminabili e dalle carceri incivili che relega la presunzione di non colpevolezza negli armadi della storia, ma anche come un paese ove i pm sono più potenti dei giudici.

Un paese che erige monumenti di credibilità a procuratori il cui carnet registra più sconfitte che affermazioni e che spenderà un bel po’ di quattrini per l’ingiusta detenzione anche nei prossimi anni, visto che negli ultimi venticinque ha pagato molte centinaia di milioni per lo stesso motivo a cittadini privati della libertà poi riconosciuti innocenti, in molti casi previa cannibalizzazione a mezzo stampa dalle veline giudiziarie. Spesso poveri cristi, sovente personaggi pubblici. Non c’era bisogno di Palamara per sapere che nel corso delle indagini i pm comandano la giurisdizione, da lui abbiamo avuto notizia di come la possono condizionare anche dopo. Sebbene nessuno dotato di buon senso pensi che al governo Draghi si possa addossare il peso insopportabile della “questione giustizia” ciò non toglie che fin da subito un segnale debba essere dato. La questione giustizia non può essere messa sotto il tappeto in quanto “divisiva”, come già avvenuto in passato e come sta accadendo in questi giorni.

Nessuno pretende che Draghi metta nel programma la riforma costituzionale che dovrebbe riequilibrare il sistema incidendo sui temi più significativi, come la reale terzietà del giudice, l’obbligatorietà dell’azione penale, la conformazione del Csm, ma qualcosa sì, questo è necessario, altrimenti finirà per accorgersi sulla sua pelle che i poteri più forti, in Italia, stanno nelle Procure. Sulle sabbie di quel deserto culturale in tema di giustizia penale che avvolge la nostra classe dirigente, da ultimo denunciato da Giovanni Fiandaca, i nuovi diano un segnale: congelino la riforma sulla prescrizione; vietino le conferenze stampa trionfalistiche dei pm; limitino l’applicazione della custodia cautelare in carcere a pochi, selezionati, casi; cancellino la dissennata decisione di estendere l’utilizzo del trojan e tornino per legge a limitare la circolazione probatoria delle intercettazioni come stabilito in una sentenza dalle Sezioni Unite liquidata da una legge pretesa dalle Procure; dissotterrino la riforma dell’ordinamento penitenziario.

Si ampli e si rafforzi il diritto di tribuna nei consigli giudiziari, spezzando lo scudo autoreferenziale che protegge le questioni interne; si inseriscano manager per i grandi uffici giudiziari; si pensi ad una scuola della magistratura sottratta alle correnti. Poi facciano una amnistia ed un indulto, visto che ora i numeri paradossali che la politica si è autoimposta si potrebbero raggiungere. So che quest’ultima proposta sembra una follia impraticabile ma, almeno su questo, l’orgia retorica sulla ricostruzione post Covid potrebbe prendere esempio dalla ricostruzione vera, quella del dopoguerra.