La metafora ciclistica dell’uomo solo al comando: questa sembra essere stata la semplice linea difensiva del sistema. Un uomo, solo, a guidare la potente Anm; un uomo, solo, nei corridoi, nelle stanze e nel Plenum del Csm. A volte, in effetti, la linea difensiva più semplice è anche la migliore. A volte. Non mi iscrivo nelle liste di innocentisti o di colpevolisti: noto, però, che Palamara è stato segretario e presidente dell’Associazione nazionale magistrati (2007-2012), e poi membro del Consiglio Superiore della Magistratura (2014-2019). Difficile pensare che, da solo, percorresse corridoi e prendesse decisioni. Ho l’impressione che vi sia stata una certa voglia di “pena esemplare” (al di là e oltre le eventuali responsabilità individuali). Ma non per punire uno al fine di educare tanti; piuttosto, per punire uno e salvare tanti.

Palamara è stato fulmineamente espulso dalla Anm e, con un procedimento disciplinare non consueto, è stato radiato dalla magistratura, credo di poter dire senza troppi approfondimenti e senza ascoltare i molti testimoni che avrebbe voluto citare. E nel collegio giudicante ha tenuto a rimanere Davigo, nonostante stesse per andare in pensione, probabilmente nel quadro del puro che emenda il più puro (o quello che una volta si riteneva tale: qualcuno ricorderà lo scontro Cossiga-Palamara…). Può accadere, però, che l’esemplare risposta del sistema si inceppi, anche a dispetto di un certo efficientismo punitivo. È quello che mi sembra sia accaduto in quello che è stato generalmente etichettato come “il caso Palamara” e che invece tende a nascondere, dietro il semplicistico capro espiatorio, un problema di sistema, come il libro-intervista di Sallusti a Palamara crudelmente rivela. Certo, occorrerà verificare se le verità di Palamara sono tutte verità effettive; ma l’impressione è che non si potrà più fare finta di niente.

Mi viene alla mente la rivoluzione francese: certo, nata con nobili ideali, ci ha lasciato tracce indelebili, come la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789 e la separazione dei poteri. Ma che – in chiave di superamento dell’ancien régime e della affermazione del nuovo – ha visto una corsa del puro superato dal più puro, con molte teste cadute sulla gigliottina, Comitati di salute pubblica, Terrore, legge dei sospetti. Sino a giungere, nel 1794, all’arresto di Robespierre e dei suoi collaboratori, il giorno successivo ghigliottinati senza processo. Di qui il Termidoro, la ricerca di nemici esterni e le guerre napoleoniche: ma la storia è nota.

Tuttavia, a ripercorrere quella storia, mi vengono ancor oggi i brividi perché non mi sembra così lontana. Dopo la radiazione di Palamara, il plenum del Consiglio Superiore della Magistratura ha preso atto della intervenuta pensione da magistrato di Davigo e ha concluso, secondo me a ragione, che egli non potesse continuare a rimanere al Csm quale Consigliere “togato”. Anche il puro più puro è stato dichiarato decaduto dal Csm… Invece, in un Paese serio, da quanto accaduto sarebbero derivate conseguenze serie. Sarebbe dovuta intervenire una riforma della legge elettorale del Csm che impedisse alle correnti di regnare (io ho sempre pensato a un sistema misto, con un ampio sorteggio e poi una votazione tra i sorteggiati). Certo, neppure questa sarebbe una riforma radicale, poiché toccherebbe il solo sistema elettorale; ma qualcosa è meglio di niente.

Per essere chiari, a mio modo di vedere, una seria riforma dovrebbe attuare l’art. 111 della Costituzione, con l’ovvia e naturale separazione delle carriere tra pubblici ministeri e giudici (ma evitando che i p.m. possano dipendere dall’esecutivo). Di qui, ovviamente, la presenza di due diversi Consigli Superiori della Magistratura: uno per i pubblici ministeri e uno per i giudici. Analogamente, occorrerebbe affrontare anche le diverse, ma connesse, questioni delle cosiddette porte girevoli (magistrati che entrano in politica e poi tornano a fare i magistrati) e del numero troppo elevato di “fuori ruolo” (magistrati autorizzati dal Csm, su richiesta della politica o di vari organi, e di loro stessi, a occuparsi di altro, rispetto alle questioni di giustizia).

Se non saremo capaci di comprendere cosa è accaduto, e perché è accaduto, ci limiteremo – al massimo – a colpire la punta dell’iceberg. E la nave della giustizia tenderà sempre a galleggiare, riuscendoci solo a volte. E tutto sembrerà mutare, ma non cambierà nulla. Forse non è un caso, come ricordai ai miei Colleghi durante una seduta del Plenum del Consiglio Superiore della Magistratura, che a Roma, a pochi metri dal Palazzo dei Marescialli, sia morto Giuseppe Tomasi di Lampedusa, mio illustre concittadino.