Tutti a prendersela con la burocrazia, sempre pletorica e lenta, ma si tratta in realtà di un inganno, un trompe-l’oeil come i panorami dipinti sui muri settecenteschi. La burocrazia in Italia è quel che è perché nasce dalla paura. Paura di mettersi prima di tutto al riparo dai capricci e dalle assenze e vuoti della magistratura. La magistratura italiana è prima di tutto lenta in modo sconosciuto in qualsiasi altro Paese civile. E poi agisce ideologicamente. Naturalmente, ci riferiamo sempre a quel minoritario ma potente settore della magistratura, eccetera, come è sempre doveroso ripetere per non offendere tutti i magistrati bravi e buoni, che sarebbero forse anche maggioranza.

Parliamo sempre di quel settore, di quei pochi “few, happy few, band of brothers” che però rendono poco felice la vita e il funzionamento della società. Dopo le confessioni di Palamara a Sallusti e i successivi dibattiti e interviste, si è aperto un filone ricchissimo di pepite, misteriosamente negletto da quella stampa e televisione che avevano fino a poche settimane fa retto la coda al governo più bello del mondo, il governo dell’avvocato venuto dal nulla. Palamara ha detto cose gravissime e terribili, ma poi sembra che si siano tutti distratti per la crisi di governo, senza aver afferrato il punto principale: Palamara ha detto – fra l’altro – che i processi contro il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi avvenivano in un “contesto” – parola illuminata da Leonardo Sciascia – in cui gli inquirenti traevano ispirazione per le loro azioni da un presidente della Repubblica che dirigeva il ballo.

Palamara ha anche sottolineato che ciò è tutto sommato normale, cioè rientra nella norma, perché nella nostra Costituzione più bella del mondo il Capo dello Stato è anche Presidente del Consiglio Superiore della Magistratura. Dunque – sostiene Palamara – quando il Quirinale si impiccia, fa solo il suo mestiere e i magistrati eseguono, sempre secondo Palamara, senza parole, per allusioni, ci siamo capiti. Questa spiegazione-confessione ha acceso i riflettori su un mostro: quello di un conflitto extracostituzionale e non dichiarato e attivo, fra due poteri: quello del Presidente della Repubblica e quello del Presidente del Consiglio, quando il primo, nella sua autorità esente da controllo, sospetta o teme che il capo del governo minacci (dice Palamara) l’autonomia della magistratura.

Facciamola corta: esiste alcun Paese moderno e occidentale, ma anche orientale purché democratico, in cui sia possibile un tale conflitto fra un eletto dagli eletti (il Capo dello Stato che gode di una legittimazione democratica di secondo grado rispetto a chi viene eletto direttamente come qualsiasi sindaco) e il capo del governo che dovrebbe essere l’espressione degli eletti? Domanda retorica. No, non esiste da nessuna parte. Ma da noi sì. Ma questo in fondo, pur non essendo affatto un dettaglio, è comunque un tassello di un puzzle che va guardato nella sua interezza. E che cosa mostra il puzzle? Che l’intero Paese è fermo perché terrorizzato sia dall’inazione che dall’azione della magistratura.

Processi lentissimi che ammazzano fisicamente i contendenti secondo l’antico principio della Sacra Rota degli annullamenti matrimoniali che dovevano durare almeno vent’anni perché così, nel frattempo, uno dei tre protagonisti di un matrimonio in crisi, muore. La lentezza ammazza e questo lo sappiamo. Poi, oltre la lentezza c’è l’ideologia che appartiene a quella fetta di magistrati che non sono l’intero corpo, ma quanto basta per causare danni irreparabili. L’ideologia è punitiva, presume la colpa e nelle cause civili tutto dipende dalla voglia e tempo che il singolo magistrato ha da dedicare al dossier. L’ideologia prevalentemente sinistrese tende istintivamente a castigare il merito, equiparando gli ultimi ai primi specialmente là dove il merito costituisce la fonte energetica del progresso industriale. Quando gli stranieri valutano i rischi che correrebbero investendo in Italia, si fanno fare un rapporto sul funzionamento e i tempi della giustizia, poi dicono no, grazie, e se ne vanno, oppure restano infilandosi in una giungla di cavilli e spese supplementari che fanno passare la voglia.

Lo stesso fanno le imprese italiane che, pur di non affrontare la pianta carnivora della giustizia, preferiscono produrre in Croazia o in Asia. Oltre a non favorire lo sviluppo dei virtuosi, questi atteggiamenti ideologici di una parte della magistratura lasciano prosperare tutto ciò che è sciatto, inadempiente, menefreghista, perché non esistono sanzioni a breve in un mondo il cui motto è: “e tu, fammi causa”. Tutto ciò il professor Mario Draghi lo sa benissimo e durante i due giri di consultazioni ha scelto di restare impassibile di fronte entrambe le parti: quella populista manettara e quella liberista. Quanto potrà durare l’atteggiamento che risponde alla fase della Sfinge? La formula di governo basata sulla maggioranza d’emergenza con dentro tutti, difficilmente permetterà a Draghi di dare immediati segnali di urgenza per una riforma della giustizia che finora, con la linea del DJ Guardasigilli Bonafede, è andata nel senso inverso rispetto a quello necessario per far ripartire l’economia.

L’idea è che l’economia italiana fosse soltanto a corto di contanti, ma che appena arrivato il tesoro dei pirati, tutta la baracca riparta, alla festosa maniera degli anni Sessanta. Non è così non soltanto per l’economia, ma anche per la cultura, la scuola in mano agli incompetenti, l’università infestata dalle cosche accademiche e la ricerca che quando vuole davvero raggiungere risultati preferisce emigrare, così come fanno tutti i giovani talenti dopo aver annusato l’aria di casa e aver visto che non c’è giustizia, non c’è premio per chi è bravo, ma soltanto oscurantismo, lentezza, incertezza, castigo per i bravi e premi con cotillon per la massa dei mediocri dell’uno vale uno e anche mezzo.
Il tema della ripresa è nel calendario delle urgenze ed è inevitabile che la questione del funzionamento della giustizia alla maniera dei Paesi normali balzi automaticamente ai primi posti facendo emergere un conflitto aperto fra le forze politiche dei volenterosi costruttori che si sono messi a disposizione di un premier che nasce con la camicia di un consenso a prima vista miracoloso. Non resta che stare a vedere, sperare e segnalare, nel nostro piccolo.

Ma onestamente ci spaventa questa smargiassata mediatica dei pentastellati sul super-ministero fantasma scopiazzato da quello francese che ha prodotto più guai e tumulti di gilet gialli che occupazione e buona ecologia. Siamo pronti a scommettere che la luna di miele della maggioranza durerà fino a quando la questione economica della giustizia – prima ancora di quella etica e costituzionale – richiederà a tutti di decidere da che parte stare e a quale punto qualcuno dovrà perdere e qualcun altro dovrà vincere, come nelle vere partite e l’Italia dovrebbe finalmente essere autorizzata a giocare la propria senza trucchi, che poi sarebbe se non abbiamo capito male lo scopo del governo di Mario Draghi.

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Giornalista e politico è stato vicedirettore de Il Giornale. Membro della Fondazione Italia Usa è stato senatore nella XIV e XV legislatura per Forza Italia e deputato nella XVI per Il Popolo della Libertà.