Una citazione in esordio non è proprio rispettosa del bon ton giornalistico, però a certe condizioni può agevolare la riflessione. Il libro è un capolavoro del misticismo politico (E.H. Kantorowicz, I due corpi del Re, Einaudi, 1989, trad.it.) e a noi bastano poche righe dell’introduzione di Alain Boureau: «Agli inizi del XVI secolo un giurista elisabettiano, Plowden, afferma che il sovrano dispone di due corpi distinti: il suo corpo naturale, soggetto all’azione del tempo e della fragilità umana, può perire, mentre il suo corpo politico, perpetuo, passa da un individuo all’altro sfuggendo alla comune miseria e mortalità». La monarchia (inglese e francese) fonda così la ragione della sua perpetuità immanente».

Il delicato rapporto tra le istituzioni e gli uomini che le rappresentano è tutto racchiuso in questa chiara enunciazione risalente ad alcuni secoli or sono. La corruttibilità umana non scalfisce l’imperturbabile grandezza del corpo politico che l’accoglie. Un parlamento, un capo dello Stato, un governo, una corte vive di questa immutabile forza che trascende le miserie, per fortuna transitorie, dei singoli e gli sopravvive. Per la magistratura le cose, a occhio e croce, dovrebbero stare allo stesso modo. La percezione di una crepa, più o meno vistosa, nelle condotte di singoli non dovrebbe essere capace di mettere in discussione la legittimazione politica e sociale dell’intera giurisdizione. Le cose hanno funzionato, bene o male, sempre in questo modo e per molto tempo; tra alti e bassi, tra eroi e traditori, tra fini giuristi e cialtroni semianalfabeti l’istituzione è comunque sempre sopravvissuta ai singoli peccatori. Ora però è forte la sensazione che le cose si siano messe in altro modo.

Se si passa dalla denuncia della singola trasgressione alla condanna di comportamenti collettivi, il problema assume una dimensione diversa che non è solo quantitativa, ovviamente. Condotte diffuse, prassi condivise, connivenze generalizzate possono ledere il corpo politico dell’istituzione e privarlo in modo irrimediabile della propria regalità costituzionale. È già successo altre volte: a esempio le istituzioni politiche non sono più riuscite a mantenere quella centralità e quell’autorevolezza che pur la Costituzione assegnava loro, travolte, come sono state, da Tangentopoli, finanche abbattute da un solo libro (La casta) e ancora oggi sono fumanti le macerie di quel crollo.

Settori importanti e accorti della magistratura – che un ruolo decisivo ha avuto, non solo nel perseguire i singoli reati (come giusto), quanto nel denudare il corpo esangue e infetto della politica e nell’elaborare una propria visione della legalità e del relativo controllo a prescindere dall’involucro formale delle leggi – percepiscono con lucidità quale pericolo si profili all’orizzonte in questi mesi di tempesta. In fondo la battaglia di queste settimane si incentra tutta intorno alla svestizione del corpo politico della giurisdizione. Lo scontro, a occhio e croce, è tra quanti ritengono di poter denudare il corpo umano del Re per colpire così la regalità dell’istituzione e quanti vogliono preservare la perpetuità solenne del suo corpo politico.

Certamente il conflitto si immiserisce in espressioni anche volgari e in contumelie ai limiti del dileggio, ma la sostanza del problema resta tutta lì. Con l’ineguagliabile singolarità, tuttavia, che a privare il corpo politico delle sue stimmate regali sia stato lo stesso Re o, meglio, quello che sino a poco tempo or sono era considerato uno dei monarchi assoluti della corporazione. Chi grida alla “delegittimazione” compie un’operazione, tutto sommato, di scarsa lungimiranza politica e istituzionale, perché non coglie la dimensione più profonda della lesione “morale” inferta alla corporazione. Lesione che non proviene – come altre volte – dall’esterno delle mura ed era perciò destinata a fallire, ma dal suo interno con un gesto di abdicazione che (come la Storia italiana insegna) non è detto che lasci intatta la monarchia. Perché se è vero che il dottor Palamara è stato formalmente destituito dalla magistratura è anche vero che la sua appare piuttosto come una deposizione, l’esilio inflitto al Re ritenuto indegno e compromesso.

Ma il corpo politico del Re sopravvive alla decomposizione del suo corpo umano alla sola condizione che non sia lo stesso Re a mettere a nudo la propria fragilità e, con essa, a denunciare la corruzione dell’istituzione che incarna. Quando ciò è accaduto gli effetti sono stati enormi: «questa crisi non è una semplice crisi politica di forze e di rapporti e relazioni tra le forze. Essa è in realtà la profonda crisi di un intero sistema. Del sistema istituzionale, della sua organizzazione, della sua funzionalità, della sua credibilità, della sua capacità di rappresentare, di interpretare e di guidare una società profondamente cambiata che deve poter vivere in simbiosi con le sue istituzioni e non costretta ad un distacco sempre più marcato». Era il 3 luglio 1992, a parlare era un altro Re, Bettino Craxi.

Con lui cadeva senza più rialzarsi un intero sistema e il corpo umano trascinava con sé il corpo politico anche in ragione di quell’ammissione di colpe collettive e condivise che nessuno voleva udire e a cui però nessuno si poteva sottrarre: «Non credo che ci sia nessuno in quest’Aula, responsabile politico di organizzazioni importanti, che possa alzarsi e pronunciare un giuramento in senso contrario a quanto affermo: presto o tardi i fatti si incaricherebbero di dichiararlo spergiuro». A volte la Storia consuma le proprie vendette in modo singolarmente audace ed imprevisto.