Un importante articolo del professor Ainis (Le correnti senza ideali su Repubblica del 12 marzo) solleva questioni di grande rilievo sulla crisi della magistratura italiana o, meglio, di quella sua specifica rappresentanza professionale che sono le cosiddette correnti. La trama fitta delle osservazioni che l’illustre studioso svolge a proposito dell’identità delle fibrillazioni che toccano, insieme, la magistratura associata e un importante formazione politica del Paese (il PD) trova un punto di convergenza nell’azione, a suo dire nefasta, che le correnti hanno svolto e svolgerebbero in seno a formazioni – la magistratura e i partiti – di primario rango costituzionale.

Il punto di caduta del ragionamento è, in buona sostanza, che proprio attraverso la degenerazione correntizia si siano tralignati gli scopi e le ragioni che avevano previsto l’inserimento nella Carta fondamentale di un Csm su base elettiva (articolo 104) e che avevano legittimato l’organizzazione spontanea della politica attraverso lo strumento dei partiti (articolo 49). L’analisi del professore Ainis non si sottrae certo a valutazioni estremamente severe circa l’associazionismo correntizio definito come un insieme di «lobby, cricche, camarille. Al servizio dei propri affiliati, non di un ideale. Anche se contraffatte con nomi suadenti: la democrazia, le riforme, l’indipendenza, la giustizia. Ma in realtà impegnate in una guerra per bande, fra eserciti nemici che però indossano la medesima divisa. II bottino? La prossima nomina in un ufficio giudiziario, se sei un magistrato».

Se così fosse, par chiaro che se ne imporrebbe l’immediato scioglimento d’autorità poiché organizzazioni tendenzialmente eversive dell’ordine costituzionale e capaci di minacciare il regolare svolgimento delle attività di organi di primario rilievo per la Repubblica. Nessuno, e neppure l’illustre costituzionalista, giunge ovviamente a questa conclusione, ben consapevole del fatto che non si possono criminalizzare correnti giudiziarie e correnti partitiche sulla base di deviazioni, pur massicce e significative, dalle ragioni ideali che ne giustificano l’esistenza. Però l’analisi pone in esergo un profilo importante, e totalmente sottostimato nel dibattito che si sta sviluppando sul sistema di potere venuto a galla dopo l’affaire Procura di Roma: ovvero se per porre rimedio a quanto successo sia sufficiente un’azione di mera autorigenerazione morale dei gruppi associativi o se sia bastevole una riforma del sistema elettorale del Csm oppure se occorra metter mano alla Costituzione attraverso una più radicale riforma dell’ordinamento giudiziario e delle carriere.

Non è necessario star qui a ricordare quali componenti del dibattito in corso si schierino sull’uno o sull’altro versante delle varie opzioni. Certo ai sostenitori della rivoluzione morale e ai fautori dei codici deontologici non si può fare a meno di ricordare che non è bastato il codice penale per infrenare comportamenti deviati e prassi devianti, per cui non guasterebbe un certo realismo al riguardo. La tesi del professore Ainis è che la palude correntizia sia una «malattia che non è figlia della Costituzione» e che «per rompere questo circolo vizioso, non serve una Costituzione tutta nuova, bensì nuove norme d’attuazione dei principi costituzionali. Quanto alle correnti giudiziarie, attraverso un sorteggio pilotato fra i magistrati più laboriosi, per designare i 16 togati del Csm».

Certamente l’idea del sorteggio, da sempre avversata dalla maggioranza delle correnti dell’Anm e per ragioni ideologiche non trascurabili, si pone come una soluzione d’emergenza resa, per giunta, impellente dalla scadenza del Csm in carica nel 2022. In mancanza di altre soluzioni che non siano origami elettorali tanto incomprensibili quanto discutibili (mini collegi, sminuzzamenti della base elettorale e via seguitando), il pre-sorteggio dei candidati al Csm da sottoporre, poi, al voto delle toghe offre una via d’uscita rapida e, tutto sommato, non particolarmente penalizzante per la corporazione. In fondo siamo in presenza di meno di 10.000 aventi diritto al voto e non si deve certo metter mano alle Tavole della legge come una sorta di ego ipertrofico della corporazione pretende che sia, ma solo di indicare la maggioranza dei componenti di un Organo prevalentemente dedito alla amministrazione dei magistrati italiani e che non rappresenta in alcun modo il vertice della giurisdizione.

Resta il dubbio che questa soluzione possa rappresentare una reale svolta nell’assetto della magistratura italiana e possa, d’un colpo, sopire le acque agitate dai carrierismi e dai cacicchi elettorali. Le toghe italiane sono in ebollizione da molto tempo e un nuovo coperchio elettorale non impedirà al malessere e alle critiche di prendere forma in altro modo e attraverso altre vie. Occorre essere lungimiranti in proposito. È sempre più evidente, anche agli occhi dei meno intranei al sistema tratteggiato sommariamente dal dottor Palamara, che il processo a suo carico che andrà a svolgersi a Perugia sarà un gigantesco bagno di sangue per la magistratura italiana. Vedremo se le telecamere saranno ammesse in aula e se gli epigoni del giornalismo giudiziario si stracceranno le vesti come ora sta accadendo per altre vicende giudiziarie che si assumono oscurate mediaticamente da divieti di ripresa.

Una scelta, questa, non da poco perché terrebbe i riflettori permanentemente accesi su un susseguirsi di testimonianze e di racconti che minacciano di intaccare non la credibilità dei singoli (che poco importa invero se non sono stati probi), quanto l’autorevolezza dell’intera magistratura italiana agli occhi dei cittadini i quali vedrebbero crollare l’indispensabile fiducia verso la caratura morale dei propri giudici e senza che si possano fare troppe distinzioni o praticare curiali sottigliezze. Un lungo ed estenuante “Giorno in pretura” in cui gli imputati sarebbero, per la prima volta, i pretori; anzi i pretoriani di una casta, incistati in qualche caso nei vertici più alti della magistratura. Da questo punto di vista il processo, se come pare probabile ci sarà, andrà per forza documentato e studiato come si esamina un cadavere su un tavolo settorio. Una lunga, crudele autopsia per scoprire le cause del decesso e le tracce degli autori del delitto. Che questo accada dipende, comunque, da scelte insindacabili di quel tribunale e staremo a vedere.

In questo probabile scenario una riforma costituzionale ad ampio compasso potrebbe rappresentare l’unico strumento adeguato per rassicurare la collettività e le istituzioni circa la reale tenuta democratica della giurisdizione che svolge un compito difficile per il quale il consenso e l’adesione dei consociati sono indispensabili. Una vera e propria rifondazione costituzionale del processo e della magistratura per immunizzarla per sempre da rischi del genere. Purtroppo le degenerazioni correntizie rischiano di portare a fondo tutte le toghe, anche le tantissime che spalano fascicoli e sudano ogni giorno per rendere giustizia e a cui sembra consegnato, se non si cambia radicalmente strada, un cupo monito: «lascia che i morti seppelliscano i loro morti» (Matteo 8, 18-22).

(1 – Continua)