Il fuoco che divora i boschi è un affare di città

«Chi dà fuoco al bosco brucerà all’inferno», dicevano i padri, «e l’inferno è il ventre vuoto di un castagno che si cova la brace per settimane e quando spruzza un cielo di scintille nemmeno l’uragano la potrà spegnere». Per i figli dei pastori la minaccia più terribile – l’incendio eterno – ad arderci vivi; la profferivano dopo un rogo, le facce antiche mascherate dal fumo, le braccia ustionate e le mani piagate con stretti i monconi dei rami di pino che erano l’unico, minimo, rimedio contro le fiamme. I pastori, quelli veri, non appiccavano fuochi, sapevano: i roghi succhiano la vita alla terra che poi non pasce pascoli, quando rispunta l’erba è fieno di pancia buono solo a gonfiare gli stomaci degli animali, ma inutile per colmare mammelle, senza sostanza e senza profumo. I pastori veri chiedevano alla quercia uno dei suoi mille bracci, e si riscaldavano un inverno intero. L’acqua se la succhiavano dai capezzoli di roccia e a ogni stagione ringraziavano la grande madre per i suoi tanti frutti. Non si avanzavano pretese sulla natura, le si apparteneva.

La civiltà vuole legna, acqua, terre libere da farci i cottage, gli hotel e gli affari. Fare le gite di domenica, immancabilmente a ferragosto. La natura è come l’India, quelli che ci stanno ci sopravvivono e quelli che vanno in vacanza ritrovano il Karma. Sui boschi, sulle montagne, i cittadini raccontano un sacco di balle: la natura è bella, magnifica, rigenerante, -che è lì in mezzo che si dovrebbe vivere. Ma dopo una notte lontano dalla città, scappano via, e fuori dalle casettine di Heidi ci stanno giusto il tempo di un selfie, di farsi venire la fame, poi una bella doccia, panni puliti e pronto in tavola.

Le montagne, i boschi, per chi davvero ci ha vissuto, sono stati zecche, pulci, pidocchi, freddo, fame, sudore e tanta tanta puzza, che l’acqua è ghiaccia pure ad agosto. La natura viva non è mai tenera, ma per chi davvero la ama è l’amore di una madre, ed è, soprattutto, un essere vivente che ti ospita, riavvolge e fa ripartire in nastro del pianeta, tutto è suo e tu puoi accettarne i doni. E ogni bosco è un essere a sé, che non è che ne conosci uno e li conosci tutti. Dentro il suo mondo ci stanno creature a miliardi: alberi, animali, torrenti. Tutte creature animate. E con le felci dopo sei mesi ci parli, ma per vincere la ritrosia dei pini ci vogliono sette anni, e perché le querce ti prestino ascolto te ne servono dodici.

Quando la foresta brucia, quando muore; i colpevoli spesso stanno fra gli intrallazzi e le frottole cittadine. Stanno fra gli agglomerati che hanno succhiato la vita alle campagne, le hanno spopolate e desolate. Dopo che lo hai perso, il bosco non lo ritrovi nell’ufficio degli oggetti smarriti. Quando l’incendio è divampato le cavallerie dell’acqua servono a poco. Sono l’abbandono e l’incuria le armi formidabili che si infilano fra le dita degli incendiari, a volte solo folli, a volte agli ordini dei tanti profitti che ogni incendio produce. Piangere, bestemmiare, accusare, dopo la devastazione, è solo riconoscere la propria colpa.