Il lobbismo secondo Licia Soncini (Nomos): “Leggiamo la realtà, nonostante i profeti di sventura il nostro mestiere è cresciuto”

Fondatrice nel 1993 del Centro Studi Parlamentari di Nomos, prima società italiana specializzata nelle attività di public affairs, comunicazione istituzionale e lobbying, Licia Soncini si racconta al Riformista.

Licia, sei un’antropologa di formazione, vorrei chiederti prima di iniziare: qual è il punto di contatto che unisce le persone che hai incontrato fin qui?
Credo che il detto similia cum similibus sia vero e, se guardo tutte le persone che fanno parte del mio mondo, questo è il criterio che ho seguito per scegliere – quando ho potuto – quelle che ci entravano. Sono tutte persone con cui condivido un sistema di valori, la cui impalcatura è costituita da tre cose su tutte: credibilità, affidabilità e coerenza. Valori che sono anche alla base dell’operato di Nomos, e che hanno contribuito a creare la sua reputazione: il bene più prezioso che abbiamo. Ma ci tengo molto anche al rispetto delle regole, tema sul quale noi in Italia – lo devo dire – non siamo proprio dei campioni. È una cosa alla quale dovremmo tenere molto soprattutto noi lobbisti. Perché il rispetto delle regole è il fondamento della nostra professione. Ah, e poi vorrei dirti che prima ho usato la parola mondo e non la parola network per una scelta precisa. Network mi piace poco, ha una sfumatura di utilitarismo. Vedi se c’è una cosa che mi hanno insegnato gli studi da antropologa è stata proprio l’attenzione alla lingua. È attraverso la lingua che si dà forma al pensiero, lo diceva anche de Saussure, uno dei fondatori della linguistica moderna. L’ho amato.

Prima dei grandi incarichi, c’è stata l’esperienza di collaborazione Parlamentare. È un bias quello di pensare che “le tribù politiche” della Prima e della Seconda Repubblica – come le definisci – fossero meglio di quelle di adesso?
E prima ancora della collaborazione parlamentare ci sono state le campagne elettorali, non come spin doctor ma facendo proprio la galoppina. Erano gli anni ‘90, e le campagne elettorali si facevano ancora in stanze buie e fumose. Lì si accampavano ciurme di volontari, che per la maggior parte incollavano francobolli e battevano a tappeto le vie cittadine per manifesti e santini elettorali; ma poi, quasi a compensazione, potevano partecipare alle riunioni sulle strategie; insomma un’occasione d’oro per imparare le regole, i codici e i modi della tribù politica. Ripensandoci oggi mi mancano quelle occasioni, l’odore del fumo, il sapore della colla dei francobolli, la pizza fredda e gommosa mangiata di corsa, la condivisione di aspettative, ansie e paure con quelli che all’inizio erano perfetti sconosciuti e poi diventavano la tua comunità. Una grande palestra, anche per un’antropologa in erba se vuoi. Provo nostalgia per quei tempi. Ma pure per il deputato democristiano che prima di farti esporre il tema ti tratteneva un’ora a parlare di massimi sistemi, e solo dopo che avevi passato l’esame, acconsentiva a presentare l’emendamento che gli chiedevi.

Quando fondi Nomos nel ‘93, in Italia il termine “lobbista” era ancora opaco, e spesso connotato negativamente. Com’è stato fare lobbying per il lobbying in questi anni?
Uh è stato difficile, erano anni molto complicati e noi eravamo un manipolo di pionieri. Prima di Nomos lavoravo in Ferruzzi Montedison, il gruppo che più di ogni altro si è sgretolato sotto la scure di tangentopoli. Il clima era pesantissimo, gli arresti quotidiani. La notizia del suicidio di Gardini mi raggiunse su un treno per Milano, fu un colpo durissimo. Su quelle macerie è nata Nomos, e ricordo ancora le riunioni infinite a discutere – con altri pochi colleghi – sulla necessità di regolamentare la nostra attività, per inserirla in una cornice di legalità e trasparenza. Le cose sono sicuramente migliorate; grazie all’impegno di tanti la nostra professione ha conquistato uno spazio di credibilità e rispettabilità, lasciami dire. Non penso che abbiamo del tutto sconfitto la brutta nomea che abbiamo, anche a causa di molti giornalisti che usano in modo improprio il termine lobbista.
Sulla regolamentazione abbiamo speso fiumi di inchiostro, ma non abbiamo fatto passi avanti. Forse prima o poi avremo una legge, quel che conta però – dal mio punto di vista – è che la percezione sulla nostra figura professionale sta cambiando in meglio.

Hai la passione per le immersioni subacquee. È un modo per avere uno spazio di silenzio nel rumore fragoroso delle relazioni? Per scendere in piazza con le tartarughe al guinzaglio?
La passione per la subacquea comunque nasce prima della professione di lobbista, e rientra nel campo più ampio dell’amore per lo sport. È frutto del legame con mia madre, che insegnava educazione fisica in una scuola media, e per lei era più importante saper nuotare che andare bene a scuola. Il suo sistema educativo è stato improntato sui valori che passavano attraverso lo sport, al punto che ogni volta che gli portavo qualcuno a casa, amico o fidanzatino, la prima domanda era “si ma che sport fa?”. Questo ha sicuramente contribuito tanto alla creazione di quel sistema di valori di cui ti parlavo, e di cui fanno parte anche la lealtà, una sana competitività, il rispetto delle regole di cui sopra e la considerazione dell’avversario, che non è mai un nemico. Quando ho potuto scegliere ho scelto la subacquea, mi ha sempre affascinato il rumore del silenzio che trovi sott’acqua. Sotto devi essere lento per consumare poca aria, devi muoverti con attenzione per non danneggiare il fondale e soprattutto devi gestire gli imprevisti che possono accadere. La regola aurea è “fermati e respira”. Così ossigeni il cervello, e riesci a pensare. Ecco il fascino sta qui, sotto non ci porti quello che sta sopra: preoccupazioni, problemi, rabbia. Ma sopra invece porti tutto quello che hai imparato sotto. Ed è molto utile, anche nel nostro lavoro.

In quasi trent’anni di attività, hai visto cambiare governi, regole del gioco e mezzi di comunicazione. Ora secondo alcuni l’AI rischia di far saltare il banco, soprattutto per il monitoraggio. Ma qual è la qualità che, secondo te, un professionista delle relazioni istituzionali non può permettersi di perdere e che un’AI non avrà mai?
Ma qual è la cosa più importante che facciamo per i nostri clienti? Leggere la realtà. Anche qui l’antropologia mi aiuta. La teoria dice che quando vai a cercare qualcosa devi avere prima un percorso in testa, devi sapere cosa cercare, altrimenti la realtà ti si presenta come un unicum indistinto, e non riesci a leggerla. Quindi ribadisco, la cosa più importante che facciamo per i nostri clienti è aiutarli a interpretare la realtà, a capire gli eventi per ipotizzare la direzione. L’AI è uno strumento, molto utile, che cambia sicuramente i modi, come lo è stato a suo tempo Internet. Anche di Internet si diceva che avrebbe reso inutile il nostro mestiere, in particolare quello del monitoraggio, perché tanto stava tutto lì, eppure… Il nostro mestiere al contrario di quanto dicevano i profeti di sventura, è cambiato, ma non è scomparso. Anzi è cresciuto, perché più l’informazione si moltiplica, più aumenta la complessità, il caos, e più c’è bisogno di qualcuno che ti aiuti a trovare le informazioni veramente rilevanti. La resilienza è una dote fondamentale, non solo nel nostro mestiere, ma nella vita in generale. Il genere umano non sarebbe sopravvissuto altrimenti.

Quanto sono importanti la noia e la curiosità per la creatività? E quanto per questo lavoro?
Sono fondamentali, la curiosità è la leva che ti permette di scoprire cose nuove che non conosci, farti venire stimoli, idee; mentre la noia è lo stato della mente che ti permette di amalgamare tutte le nuove scoperte e soprattutto di interiorizzarle. Così si mette in moto il processo creativo. Ma tutto questo non avviene senza un altro elemento fondamentale, che è il tempo. E questo è spesso motivo di contrattazione con i clienti, che vorrebbero i progetti in tempo reale. In tempo reale puoi avere solo progetti standard, e io mi annoio a proporre progetti standard. Ma questa è un’altra noia, non quella creativa.

Hai attraversato vari periodi, anche personali. Hai superato una brutta malattia. Ma guardandoti indietro, cosa diresti alla Licia del ‘93? Cosa hai imparato? E quanto spazio c’è per l’amore in una vita attiva?
No, voglio risalire un po’ più indietro e guardare alla Licia uscita dall’università, che voleva lavorare in una biblioteca o in mezzo ai gorilla – ero innamorata di Diane Fossey, l’etologa resa famosa dal film Gorilla nella nebbia – oppure in un laboratorio di ricerca, tutto insomma tranne che lavorare in mezzo ad altre persone, perché quella ragazza lì si riteneva “totalmente asociale”. Ecco le direi: Cara Licia, ma quanto ti sbagliavi? Quanto ci hai messo a credere quello che tutte le evidenze invece ti dimostravano? Cioè che in mezzo alle persone ci stavi bene? Ma alla fine anche quella ragazzetta, scontrosa e burbera, mi fa simpatia. Non le farei la predica, anche se burbera poi ci sono rimasta. Ognuno di noi fa quel che può con la dote che ha. Nessun rimpianto allora, nessun rimprovero. E sull’amore dico che non mi sono mai ritenuta una romantica, ma sono in sintonia con Dante quando scrive: l’amor che move il sole e le altre stelle. Una vita attiva è per forza piena di amore, in tutte le sue forme. E l’amore è l’unico vero motore di tutto l’universo. Però, tornando a prima, giuro che se rinasco faccio l’antropologa a tempo pieno.