Interviste Lobbiste
"CuiProdest? Non è un manifesto “politico”
Volpe: “Il lobbying è uno dei pochi settori che in Italia funziona davvero, non va azzoppato con una regolamentazione”
A colloquio con Giuseppe Volpe, managing partner di una delle realtà più dinamiche nel panorama del lobbying del nostro paese

Cui prodest, è il nome della tua società di public affairs. Cui prodest scelus, is fecit, scriveva Seneca nel Medea. Ed è lo stimolo che identifica il responsabile di un fatto in chi ne ha interesse. È necessario o scorretto ergere l’interesse di un singolo a interesse generale? È quello che fa un lobbista?
«Quando fondammo Cuiprodest eravamo la branch italiana di una multinazionale del public affairs e registrammo un marchio in latino per certificare di essere italianissimi. Il nome, quindi, non era un manifesto “politico”, ma un segnale metodologico: qui siamo italiani e ci chiediamo a chi giovino le scelte politiche. In questi circa 20 anni non ho visto contrapposizioni tra gli interessi di un singolo attore e quelli generali. Le aziende che rappresentiamo contribuiscono al benessere del Paese attraverso il proprio benessere e, se servono le norme per assicurare entrambi, è lì che interviene il lobbista. E poi, per citare Ayn Rand il cui ritratto campeggia in una stanza del nostro ufficio, non esistono interessi generali, ma solo interessi particolari che riescono a farsi percepire come interessi generali».
Nel Medea però la frase serve a fare reframing, scaricando la colpa di una serie di omicidi – da lei commessi – su Giasone, che con i suoi tradimenti avrebbe generato la furia omicida. Pensi che in questi anni la politica e i media abbiano avuto interesse a scaricare sui lobbisti alcuni malfunzionamenti del sistema?
«Assolutamente sì e lo si fa tramite un’estensione semantica della parola “lobbista” sensata tanto quanto le generalizzazioni da bar. I lobbisti nascono negli Stati Uniti per portare le petizioni dei cittadini agli esponenti di un potere centrale che andava allargandosi ad aspetti della vita fino ad allora non regolamentati. A me sembra una risposta legittima, funzionale ad una democrazia e direi addirittura “anticorpale”. Includere nella categoria ogni tipo di faccendiere, sottobraccista e mediatore serve a distrarre l’attenzione dal problema all’effetto».
In Italia non c’è ancora una legge sulla regolamentazione del lobbying. Cui prodest?
«Direi che, entro certi limiti, giova soprattutto al Paese. Guardiamo al settore: zero evasione fiscale perché i committenti sono tutte aziende, zero precarietà perché c’è una concorrenza tra agenzie nell’accaparrarsi i migliori talenti, meritocrazia perché è l’unica via per assicurare risultati tangibili con una campagna di lobbying, zero barriere all’ingresso. Insomma: uno dei pochi settori che in Italia funzionano davvero, ora dovremmo azzopparlo con una regolamentazione? Il mercato è inoltre perfettamente in grado di autoregolamentarsi: le multinazionali che assistiamo e le tematiche che gestiamo in Cuiprodest producono controlli ex ante che nessuna regolamentazione potrà affievolire o evitare. E le multinazionali sono la parte più ampia del mercato. Fateci caso: ogni volta che c’è uno scandalo, tipicamente c’è di mezzo un’azienda media, magari di stampo padronale, e un consulente “free lance” per dirla elegantemente. Grandi aziende, multinazionali e agenzie di lobbying difficilmente fanno parte del problema che la regolamentazione vorrebbe risolvere».
Ha ancora senso fare lobbying nel senso classico del termine? O, come fanno alcuni, bisogna investire sull’advocacy e la comunicazione?
«Un cardiochirurgo non opera al cervello e un neurochirurgo non tocca il cuore, eppure sono entrambi medici, eppure si tratta in fin dei conti di organi. In Cuiprodest crediamo nella specializzazione e quando facciamo eventi o media relations, le uniche forme di comunicazione che ci concediamo, “parliamo con gli eletti e non con gli elettori”, come siamo soliti ripeterci. Ad un modello di agenzia multiservice in cui non crediamo, preferiamo da sempre contrapporre la nostra piena disponibilità a collaborare con chi fa comunicazione. Ma per noi restare l’unica agenzia in Italia ad offrire esclusivamente servizi con focus politico è un fattore genetico e riverbera anche nell’accesso diretto, schietto e bipartisan che abbiamo agli esponenti apicali delle Istituzioni».
A proposito di Advocacy. Ne hai scritto su Forbes, che ospita anche la lista dei migliori lobbisti italiani. Nella bolla del Public Affairs, però ci sono due correnti di pensiero: chi rincorre le classifiche, e fa di tutto per finirci dentro, e chi invece pensa che siano controproducenti. Qual è la strada più giusta per te?
«Se domani stampassi le tovagliette promozionali di una catena di fast food o allestissi un piccolo call center, queste voci potrebbero rientrare nel medesimo codice ATECO di chi fa pubbliche relazioni. La classifica dice poco o nulla della qualità delle società che elenca. E’ piena di persone e società che stimo, ma non è detto che facciano il nostro stesso lavoro. Cuiprodest non è in classifica perché è una società di persone e non di capitali perché crediamo nella responsabilità dei soci, ma se anche ci fossimo, se anche avessimo fatturati roboanti da mostrare, questo non direbbe nulla sulla qualità dell’agenzia. Più che dal fatturato, credo si evinca dalla caratura e dalla permanenza dei clienti… e noi ne abbiamo perso solo 1 nella nostra storia».
Avete creato un’Academy interna. Tu hai docenze in alcuni master. Su cosa deve formarsi un giovane che vuole intraprendere questa professione?
«Frequentare i partiti, congressi, seminari, lezioni. Capire le logiche delle persone che ci sono dentro. Poi frequentare le Istituzioni, comprenderne i meccanismi, le regole e le liturgie. E infine studiare l’industria: quando si rappresentano gli interessi, bisogna conoscerli. Sembra fatto per la nostra professione quel monito di Italo Calvino che invitava a puntare solo sulle cose difficili, eseguite alla perfezione, a diffidare della faciloneria, a puntare sulla precisione. In Cuiprodest ci crediamo a tal punto che alla formazione continua dei nostri dipendenti affianchiamo ormai da tempo una formazione rivolta a quadri e dirigenti delle aziende e associazioni nostre clienti e apriremo presto le porte anche ai giovani».
Sei consulente italiano per alcuni fondi di investimento stranieri. Come leggi l’interesse di alcuni fondi per le società di public affairs italiane? Porteranno a modificare il mercato?
«Ci sarà una tendenza al ribasso, nei prezzi e nella qualità della consulenza, e l’unico antidoto è continuare a puntare in alto. Come detto, il modello di grande agenzia multiservice, con pletore di neolaureati cui dare in pasto clienti poco selettivi, è, nella mia modestissima e personale visione, debole concettualmente ora e lo sarà anche economicamente domani, allorquando i colossi della consulenza, o i loro epigoni, si affacceranno sul mercato italiano con la stessa pervasività con cui presidiano altri mercati».
Hai scritto che la tua passione, oltre alla politica, è la lettura. Se potessi rileggere solo tre libri per il resto della tua vita, quali sarebbero? E perchè?
«Se potessi rileggere solo tre libri, scriverei un emendamento per autorizzarne 300. E, se proprio l’emendamento non passasse, preparerei la mossa successiva rileggendo della dignità della lotta da “Il vecchio e il mare” di Hemingway, della fenomenologia del potere da “L’autunno del patriarca” di Garcia Marquez e dell’inconsistenza di certe cose da “Il nostro agente all’Avana” di Graham Greene».
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