Il mercato, la crisi e la mano invisibile: politica serva del capitalismo invoca lo Stato quando tutto va male

“Più mercato, più mercato, meno stato”. Io me lo ricordo questo slogan. Lo ho sentito ripetere migliaia di volte. Non solo dai politici e dai giornali della destra, ma anche, e forse soprattutto, da quelli del centrosinistra. Tony Blair, lo ricordate Tony Blair? Conquistò prima la Gran Bretagna e poi tutta l’Europa e tutto l’Occidente con questa idea qui: che il socialismo, per modernizzarsi, doveva diventare liberista. Ultraliberista. Non liberale, attenzione: liberista.

Cioè doveva ispirarsi all’idea che la società possa essere regolata dal mercato, perché il mercato, se non è inquinato dalla politica e dallo Stato, è sempre giusto, ed è guidato da una mano invisibile, (espressione inventata dal grande Adam Smith) che sa dove deve colpire e dove deve aiutare, chi deve promuovere e chi deve bocciare, e sa quali sono gli interessi generali e come e quando coincidono con gli interessi del singolo imprenditore o del singolo compratore. Blair, e poi tutti gli altri leader della sinistra europea e occidentale che dominavano il mondo alla fine degli anni Novanta (D’Alema, Jospin, Clinton, Cardoso… in Europa i premier socialdemocratici erano se non sbaglio 17 su 25). Loro ci spiegarono che la vera socialdemocrazia era anti-socialista. Che il vero socialismo era il non-socialismo.

Meno Stato, meno welfare, perché per combattere la povertà (anche per combattere la povertà) la cosa migliore era affidarsi alle meritocrazia di mercato. Il metro dei valori, realisticamente, doveva diventare il denaro, perché il denaro è oggettivo e non ideologico, e solo in questo modo si poteva promuovere e proteggere lo sviluppo, e una volta ottenuto lo sviluppo si sarebbero migliorate le condizioni di vita anche dei ceti più deboli. In Italia fu il centrosinistra a varare le prime leggi che aprivano le porte al precariato. E fu il centrosinistra a realizzare le più importanti privatizzazioni. Sempre in onore del mercato e della sua saggezza. Il blairismo aveva convinto tutti di due cose: la prima era che la Storia era finita nel 1989, con la caduta del muro di Berlino e con la vittoria del capitalismo. La seconda era che il capitalismo era uno e uno solo, immodificabile, giusto e vincente, e che la sinistra non aveva il compito di riformare il capitalismo (tantomeno questo compito spettava alla destra) ma di dimostrare che era più brava della destra a servire il capitalismo così com’era e a guidare le politiche storicamente della destra. E il riformismo? Il vero riformismo era senza riforme.

Fu in quel momento che le distanze tra destra e sinistra scomparvero. E scomparve la distinzione tra conservatorismo e riformismo. Restarono sul campo due destre – molto agguerrite nella battaglia tra di loro, che era diventata pura e semplice battaglia di potere – e poi ai margini una sinistra rinsecchita e senza idee, capace solo di ripetere formule vecchie vecchie e che non avevano più significato. E il mercato? Andava dritto dritto per la sua strada, con l’aiuto della politica e godendo della riduzione del welfare, della sanità pubblica, dell’istruzione. Lo Stato si ritirava piano piano, e anche un po’ vergognoso. Perché mentre vinceva la teoria di Smith sull’economia vinceva anche la teoria di Grillo (almeno, qui in Italia…) ma non solo di Grillo sulla politica. Dopo il ‘92 e l’offensiva dei Pm milanesi, sostenuti da una incredibile schieramento di giornali e Tv, nell’opinione pubblica si affermò l’idea che la politica è una schifezza.

È privilegio, corruzione, punto e basta. Il massacro della politica (“la casta, la casta!” gridavano non i Cinque stelle, che ancora non erano nati, ma dei giornalisti del Corriere) era perfettamente funzionale al trionfo dell’idea che meno stato, meno possibile, fosse la strada vincente. La modernità, il futuro. Lo Stato doveva servire a una cosa sola: a giudicare e a reprimere. Tutte le politiche della tolleranza che avevano intriso il senso comune e l’intellettualità negli anni Settanta e Ottanta si trasformarono in politiche e filosofie del rigore e della punizione. Spesso erano gli stessi intellettuali liberal del ventennio precedente agli anni Novanta a diventare i leader dello schieramento giustizialista. Eccoci qui. Alla vigilia della crisi economica e della pandemia e della follia della guerra alla Russia, eccoci qui tutti ben omologati: giustizialisti e antistatalisti e nemici della politica.

E ora? Ora che il miracolo economico non c’è più e che la crisi taglia le gambe a famiglie e imprese, e che l’economia barcolla? Ora non sento neanche una vocina flebile flebile che invoca il mercato. Nessuno che di fronte alle lamentele dei commercianti, o degli imprenditori, o degli operatori del turismo, risponda loro: “È il mercato bellezza, se non ce la fai, chiudi e -secondo gli insegnamenti di Smith e di Pareto – sarà un bene per la società”. Nessuno. Tutti invece invocano interventi massicci dello Stato per modificare il corso economico e per socializzare le perdite. I profitti no: le perdite. Non è così? Intendiamoci: io dico che è giusto quel che succede ora. Io dico che lo Stato deve intervenire massicciamente. Purché poi, a crisi finita, non si ricominci con quella storia della mano invisibile.

Quel che mi indigna è che di tutto ciò nessuno discuta. Né prima né durante la campagna elettorale. Non è questa la questione delle questioni della politica? Come modificare questo modello capitalistico. Come adeguarlo alle esigenze di una società instabile. In che modo restituire alla politica la sua dignità riportandola al dilemma di come Stato-mercato convivono e di chi deve avere la supremazia. A me sembra lapalissiano che questa sia la questione. Qui si dividono (se esistono) le idee e i modelli di futuro. E invece chiacchiere, chiacchiere, chiacchiere e qualche distintivo. Poi – penso – non c’è da stupirsi se un paese così, in cui la politica è così leggera e spensierata, è finito per più di tre anni nelle mani di un certo avvocato Conte…