Non è una corsa al voto come le altre. Il dissolvimento del M5s, nello spazio di pochi anni, sembra aver riportato in auge gli schieramenti di un tempo. Tolto qualche nome e sostituito qualche simbolo, si potrebbe pensare di essere tornati al 1994, quando si udirono distinti i primi vagiti della Seconda Repubblica. C’è ancora in campo Silvio Berlusconi, la Meloni si gioca la partita che Fini non poteva ancora disputare, la Lega a occhio e croce sembra bruscamente tornata a essere il partito del Nord. A sinistra le cose sono cambiate anche meno con la solita, poco fortunata, alleanza tra partito democratico (nelle sue varie declinazioni) e le fazioni oltranziste. In mezzo un incerto duopolio Calenda-Renzi che tanto ricorda le speranze di Mario Segni. Tutto cambia perché gattopardescamente nulla cambi, allora? Non proprio.

Da quel lontano 1994 l’Italia ha registrato la presenza imponente, impetuosa, ingombrante di un soft power di matrice tecnocratica che, circa 30 anni or sono, neppure esisteva. Certo esistevano i grand commis di Stato, i top manager delle imprese pubbliche, delle banche, dell’industria, ma non v’era traccia di una tecnocrazia che, cresciuta all’ombra di Bruxelles, dell’Eurotower, di Londra, di Wall Street e delle tante centrali finanziarie dell’Occidente, si atteggiasse a una sorta di upper class del paese. Una sorta di nuova “razza padrona” che – priva di legittimazione politica e senza mai sporcarsi le mani nell’agone turbolento e malmostoso delle competizioni elettorali – è convinta che i partiti non siano in grado di governare i cambiamenti del paese, che la società civile sia riottosa e iper-corporativa, che alla nazione debba somministrarsi l’asettico precipitato delle scienze dell’economia, della finanza, dell’organizzazione per poter gareggiare con il resto del mondo. Gli dei di questo Olimpo delle competenze sono stati spesso evocati nella storia del paese.

È successo con Ciampi, poi con Monti, poi con Draghi in un succedersi di invocazioni di aiuto e di solenni bocciature; con un amore/odio irriducibile quanto irrazionale; con il mito di Cincinnato sempre a portata di mano. Difficile contestare che Mario Draghi rappresenti una delle migliori risorse del paese, che la sua opera abbia riportato in carreggiata una nazione visibilmente deragliata perché finita in mano a un manipolo di sprovveduti. In questa campagna elettorale, quell’esperienza si erge come mai prima a pietra di paragone, a termine di riferimento, a confine rispetto a cui definirsi. Non era successo con Monti, né prima di oggi. Questa volta Cincinnato non tornerà ai suoi campi, né riporrà lo scettro del dittatore. Non l’uomo Cincinnato, ma l’idea che incarna, il mondo cui offre rappresentanza e voce; quel mondo non sembra disponibile a dismettere potere e prestigio.

Anzi. Anzi pretende un ruolo, uno spazio, una ricompensa. Vuole che la democrazia gli rechi un tributo. Monti venne cinto, prima ancora della sua missione, dal laticlavio del senatore a vita. A Draghi qualcosa di identico verrà tributato. Ma, ripeto, non è in discussione il destino dei singoli, quanto la sorte che competerà ad apparati, a enclave, a circuiti che guardano con sussiego la politica e lo stesso paese e sono convinti che senza di loro ogni speranza sia vana. Le cancellerie di mezzo mondo vacillerebbero, l’Ue si allarmerebbe, la Casa bianca si insospettirebbe se, di colpo, il paese venisse restituito al proprio, ordinario e scalcinato circo partitico, con i suoi show, le sue gaffe, la sua impreparazione, le sue immancabili mascalzonate.

È’ chiaramente il centro-sinistra la casa di questi circuiti e di questi poteri. La candidatura, prestigiosa e altamente simbolica, di Cottarelli si erge a dimostrazione visibile di quale sia il campo verso il quale pende il favore della nuova upper class meritocratica e tecnocratica. Non deve stupire, allora, che il centrodestra punti tutte le proprie fiches sul presidenzialismo, ossia sull’ultimo, estremo tentativo (come ha ricordato sabato scorso il professor Alfonso Celotto in una bella intervista) di conservare alla politica il governo del paese, di assicurare alla democrazia la reggenza della cosa pubblica, di sottrarsi alla morsa suadente dei competenti che reclamano le chiavi dello Stato, sia pure per salvarlo dagli inetti.

Probabilmente mai come in questo momento ridurre la campagna elettorale all’ennesimo, stantio confronto tra destra e sinistra sarebbe un grave errore di percezione. Chi ritiene di avere la prossima maggioranza dei consensi e dei voti punta dritto a rafforzare il ruolo della politica che si è mostrata tragicamente fragile nelle forme della democrazia parlamentare a ogni vera emergenza e in ogni vera crisi. Da Tangentopoli in poi i partiti hanno perso tutti i confronti con le emergenze del paese che si sono mostrati incapaci di fronteggiare e contenere; pandemia compresa. Commissariate in vario modo e a ogni rannuvolamento, le forze politiche sono ora di fronte alla sfida finale: cedere lo scettro del comando alle nuove élite accogliendole nelle proprie fila, augurandosi che non diventino corrosive e arroganti oppure riprendere la via delle riforme costituzionali per rafforzare la Repubblica e conservare alla politica il ruolo che in democrazia le deve competere. La battaglia sul presidenzialismo è solo una scaramuccia, il prologo di uno scontro più aspro tra un nuovo opaco e elitario che ha deciso di prendere posto nel cuore dello Stato e un vecchio che ne intuisce l’ostilità e, anche, i pericoli, ma che non ha l’autorevolezza e la credibilità per opporsi.